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Lettere (Sarpi)/Vol. II/162

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CLXII. - Al medesimo

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CLXII. — A Giacomo Leschassier.1


Pel corriere ricevei due lettere di V.S.; la prima del dì 4 ottobre, l’altra del 5 novembre. Stupisco [p. 166 modifica]come mi sieno giunte sì tardi, quella segnatamente di due mesi fa; quando ricevo sempre fra 15 giorni le lettere del signor Castrino. Spiacquemi l’indugio assai, specialmente per quello che scrisse sul decreto del conte di Lemos, di cui fin qui non s’era intesa da noi alcuna novella; e già sarei stato informato di tutto l’affare, se in tempo avessi ricevuto le lettere. Mi è sembrata tal cosa di tanto rilievo, da credere che niente siasi in alcun luogo operato di più conducente alla utilità pubblica; e mi meraviglio che un sì gran beneficio ci sia stato sì lungamente ignoto. E vorrei che fosse vero; ma temo ci cada esagerazione, e non siasi fatta alcuna novità ma cosa ordinaria; di che si lamentano spesso, quantunque invano, i pontefici, affinchè non s’abbia a dire essersi mantenuta la usurpazione con loro saputa e tolleranza. Non passerà l’anno che mi sarà del tutto chiaro l’affare, e subito gliene scriverò.

Quanto al libro del Bellarmino, me ne sbrigherò in una sola parola. È come un canto di vittoria per la morte del re, e quel che altri può congetturare, ponendo mente al tempo e all’altre circostanze. Se l’Università, o chi per essa scrisse (ch’io pregio non meno della Università), portò giudizio sulla opinione che mette il papa innanzi al Concilio, che pensare di quella dottrina che concede precariamente ai principi non solo i regni, ma persino la vita? So che cotesto nunzio si è lamentato perchè il libro sia stato proibito dal pretore della città, ed ha aggiunto che ciò dava facoltà agli altri di riscrivere in senso contrario. Io amerei che il libro fosse condannato per sentenza concorde della Università, meglio che confutato per gli scritti dei privati. Ma se la prima [p. 167 modifica]cosa non può eseguirsi, si faccia almeno la seconda: sebbene io non dubiti che quanto si scrive a Roma dovrà egualmente condannarsi; ma pur non si farebbe così gran danno a quelli che contraddicono, come a quelli che tacciono. Oh! potessimo noi in siffatta quistione parlare, e gustare d’una particella di vostra libertà! I nostri costumi non si confarebbero, è vero, a’ vostri; ma agl’Italiani garberebbero più. Io per me tengo che tutte le controversie religiose che turbano il mondo, vadano a risolversi in quest’una: del potere del papa.

Mentre s’affannano a tôr di mezzo il libro del Bellarmino, ne favoriscono lo spaccio: tanto oggi è cercato da tutti. Io, in tutti questi giorni, mi son dato attorno per trovarne un esemplare per Lei, e provai sommo rincrescimento disperando di potervi riuscire: finalmente ho trovato questo che mando, preso ad un amico che lo custodiva come un tesoro. Questo mi sorprende, che il nunzio abbia menato costà tanto scalpore, mentre il nostro non ha aperto bocca, e il papa non ha fatto alcun richiamo all’ambasciatore di questo principe. Sono costretto a chiudere la presente per la imminente partenza del corriere, eccitandola ad informarmi appuntino di quel che si farà o dirà su questo punto, e ad inviarmi ogni decreto in iscritto che si metterà fuori dalla Sorbona o dal Parlamento. Stia sana, e mi continui la stessa benevolenza.

Venezia, 7 dicembre 1610.

P.S. — Qui dappertutto leggesi il libercolo2 [p. 168 modifica]diretto alla regina in favore dell’Università, recato in italiano e non so dove stampato. Gliene mando un esemplare.




Note

  1. Stampata come sopra, pag. 94.
  2. Cioè la Supplica, o Libellus supplex, più volte nominato nella precedente e in altre Lettere.