Lo schiavetto/Atto primo/Scena V

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Atto primo - Scena V

../Scena IV ../Scena VI IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% Teatro

Atto primo - Scena IV Atto primo - Scena VI


Succiola, Alberto, facchini

Succiola.
Deh, di grazia, non mi date, messer Alberto, noia, non mi fate logorare il tempo col cicalar con voi, oh? Vo’ non vedete quanti zanaioli ho meco carichi di polli, di vitella, d’agnelli, d’arista, di salciccia, di tordi, di fegatelli, di migliacci, di peducci, di bassotti, di colombacci, di starne, di fagiani, di lepri, di caprioli, di gelatina, di raviggioli, di marciolini, di gobbi, di seleni d’ulive, di pignoli, di mandorle pelate e di finocchio forte? non vedete qui gli aitti carichi di grechi, di verdee e del vin di Chianti? non vedete quegli altri pure carichi di pentole, pentolini, schidoni, capi fuochi, gratelle, padelle e caldaie? Di grazia, non mi date più mattana, ché meno un tantolino posso istare più con voi. Egli è otta di manucare, più cinguettar non posso, iscusatemi.
Alberto.
E perché io vi ho veduta in questo giorno con tanto insolito apparecchio, mosso mi sono a farvi richiesta di che far vogliate di cotanta roba. Vedete, non vi è la maggior cortesia che con vecchi esser cortese, costume già da gli antichi molto osservato.
Succiola.
Or sù, zanaioli, entratevene in quell’albergo, che testè sarò da voi.
Alberto.
O che siate per mille volte ben bene detta Succiola cortese. Or ditemi: e che tanto apparecchio è questo? per chi lo fate?
Succiola.
Per chi? O càzzica, la fortuna a cotesta otta m’è venuta in casa, e tutta cotesta robba me ne ha servito il pizzicagnolo, che serve la corte qui del duca.
Alberto.
O Fortuna forfantissima, tanto è ch’io ti cerco, e tu sempre da me fuggi! Ma che fortuna è questa? come l’alloggi tu in casa?
Succiola.
O vo’ siete (e perdonatemi) il bel scimunito! Credete forse che la fortuna mi sia venuta a cotest’otta in casa? Voglio dire che avendo in casa un prencipe di gran laude, con molta corte, con molt’oro, ho trovata la fortuna, che dorme in casa mia.
O che avaraccio, adesso gli ho dato una stoccata.
Alberto.
T’aveva pur troppo inteso, che ben so che sia Fortuna insieme e la volubiltà sua, tratta da quella ruota, ch’ella nella mano porta. Ma s’io la biasimai, s’io mi infinsi di non conoscerla, dissi solo per dimostrarti che giamai così cortese non la conversai, né così dispensatrice d’oro, poiché sempre verso me de’ suoi tesori fu discortese e avara.
Succiola.
Eh? Voi dovereste pur amarla, poiché s’ella è avara, è vostra prossimana.
Alberto.
Or ne lasciamo questo; poiché ’l praticar troppo spesso con medesime persone, e il parlare troppo a lungo di medesime materie par che finalmente affastidisca.
Succiola.
Oh? Cotesta corda sapevo io bene che non faceva per il vostro ceterino! Bisogna che io dica il vero, se ve n’andasse bene il fegato, i’ non so andar dietro a quelle moine, come vanno cotesti moieri, ch’oggi dì imbrogliano il mondo, e s’io lo sapessi fare, crediatemi pure che a cotest’otta il mio varrebbe più di quattro giuli gigliati.
Alberto.
Succiola certo, certo, che tu fa’ bene a non essere imbrattata di cotesta pece; poiché è meglio con le cose vere offendere, che piacere lusingando. E certo che quelli che giornalmente lusingano sono uomini di pochissima fede, poiché amando non l’amico, ma più tosto la fortuna e la ricchezza dell’amico, spesse volte ad ultima rovina lo conducono; ed io per me quando fossi da necessità sospinto, vorrei più tosto abbattermi ne’ corvi, che ne gli adulatori.
Succiola.
Signor Alberto, s’ho detto per offenderla, mi venga la rabbia, mi poss’io sfondolare! Or per non la tenere a bada, sappia che dell’apparecchio, da quest’otta sino all’oscurare, ch’i’ debbo far di vivere, ho avuto alla mano mille e cento scudi d’oro. Alla sfuggiasca intoppare in cotesta ventura, non è istato assai? non posso dire che di quadragesima io goda il Berlingaccio?
Alberto.
Certo che tu hai la luna in quintadecima.
Succiola.
E si favella di istare non a settimane, ma a mesi in casa mia. Or guatisi un poco che sguazzare ha da esser cotesto mio!
Alberto.
Do’, che sento? O perché non poss’io vestirmi da sguattaro e stare in quella osteria a mangiare per nulla e avanzare tutti questi pasti, non solo io, ma la mia famigliola ancora, poiché non potrebbe tanto poco portare a casa, che in una volta sola non si portasse la provisione di tutta una grossa settimana.
Succiola.
Signor Alberto, vo’ fate un gran cicalamento con esso voi. Volete voi alcuna cosa? Commandate, fate presto, poiché or ora io debbo andare dal calzolaio, dal fornaio, dal mugnaio, dal pecoraio, dal fornacciaio, dall’erbolaio, per iscarpe, per pane, per farina, per ricotta, per bicchieri e per erbaggi.
Alberto.
Di grazia, ancora non vi partite. Sappiate che, da me ragionando, io stava in forse di chiedervi un favore.
Succiola.
Oh? ch’indugiate? Comandatemi, ché vi sono ubrigata.
Alberto.
Chieder vi voleva di quell’ossa di capponi, di pavoni, di vitella, allesse, arrosto, scorci di pasticci, e così altre cosette da nulla; poiché sei cani levrieri mi sono stati mandati a donare e per lo viaggio hanno patito molto e sono secchi, secchi, secchi; ma sopra il tutto, non gli spolpate troppo, acciò che ci sia qualche cosetta intorno da piluccare.
Succiola.
O che avarone, di sicuro vuol cotestui manucarli! Sono cani da giugnere? Oh come gli vo’ bene! Dell’ossa tante darognene, che le sacca gl’empieronne.
Alberto.
O cortese Succiola vi ringrazio. E io mangierò la carne, e che forse non sarà buona? Dell’ossa de’ polli, poi, farò de’ flautini e de’ quagliaruoli, e sottomano caveronne dinari. In somma, ogni poco remo spigne la barca, ogni poco aiuta e molti pochi fanno uno assai.
Succiola.
Fa un gran cinguettamento cotesto gocciolone da sé.
Alberto.
Oh s’io potessi con questo mezo farmi una buona pignatta di grasso, come buono sarebbe, per tutto questo anno; e che grasso e che elesirvite!
Succiola.
Voglio stuccicarlo a cicalare.
O signor Alberto, non la sminucciolate po’ tanto da voi, sapete? E che domine pensate vo’ di fare?
Alberto.
Io l’ho pensata ed è bellissima. Da me sono andato pensando d’esser grato a quella cortesia che far mi volete e voglio prestarvi perciò tutte le pentole, caldare, tegghie, piatti grandi e piatti piccioli, che di bisogno vi faranno nel cocinar a questo prencipe. Che ne dite, non è bene ad esser grato al benefizio ricevuto?
Succiola.
E di che sorte! Accetto il tutto. Che ben d’una marra i’ meriterei nella collottola, quanto coteste cose i’ rifiutassi! Renderognene poi com’è partito il signore e ’l tutto polito come specchi, vedete, perché nella politezza non voglio ballate, e quante vi sono serve fiorentine si disfiorentinino pure, che appo di me non vagliano un fico, un lupino.
Alberto.
O questo no, né mia figliola, né le fanti di casa così non l’intenderebbono. Mandate pure il tutto di pasto in pasto, e così sporco e unto, ché non importa.
Succiola.
Così sudicio? Oh non mi state a dar mattana, ché cotesto non farò io giamai.
Alberto.
Fermatevi, ché non sapete il tutto. Giuramento hanno le donne di casa di non mai dar da lavare i loro piatti ad alcuno, poi che stimano, queste sciocche, che altri non fosse bastante di renderli lavando sì belli, come elle stesse fanno. Così voglio; in somma, non dite altro.
Succiola.
Vo’ m’andate tanto sermonando nel capo, che per non vi parer perfidiosa e astiosa, i’ mi contento.
Alberto.
Vi darò di più i candellieri. E pur quelli potrete di volta in volta mandarli, e ben che vi fosse il sego di quattro dita alto, non importa; i candellieri non sono fatti per questo? Eh, madonna Succiola, bisogna far servizio alle genti e non aver l’avarizia ficcata nell’ossa.
Succiola.
Or poi, ch’io la veggo tanto amorevole, non voglio tacervi quello che in casa cotesto principe mi disse. Sappia che vuole un palazzo ad affitto; or che ho pensato?
Alberto.
Dillo, di grazia.
Succiola.
Che vostra signorìa gli dia il suo, che ve lo potrebbe tutto fornire e donarvi poi l’addobbamento e tutte le massarizie.
Alberto.
Datemi la mano.
Succiola.
Eccovi la mano.
Alberto.
Io mi contento, ho poca famiglia, retorerommi in ogni piccolo cantoncino e così accomoderò questo signore. Oh che ventura inaspettata, oh che bel porre in avanzo! Dov’è? Battete, battete, battete! Chiamatelo, in grazia, madonna Succiola mia cara.
Succiola.
O che cotennone!
Adesso io picchio, perché fa istare chiuse tutte le porte, vedete, per lo sospetto. O di casa ? o da l’osteria? I’ son Succiola. Mi vedete voi, signore?