Lo schiavetto/Atto primo/Scena VII

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Atto primo - Scena VII

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Atto primo - Scena VI Atto primo - Scena VIII


Nottola, Grillo, doi paggi, Rampino, Alberto, Succiola

Nottola.
Olà, olà! a chi dich’io? canaglia, canaglia, venitemi a slacciare or ora le calce! presto, presto, ché mi si è mosso il corpo!
Grillo.
Son qui, son qui, signore.
Rampino.
Vedete, signore, questo, che in casa parla, è il principe tanto glorioso.
Nottola.
Furfante, adesso se’ venuto, eh?
Grillo.
Vostra signorìa s’è cacato addosso, non è così, signore?
Nottola.
Non lo senti? Piglia qua, ché ti dono questi calzoni.
Rampino.
In somma signore, egli è il più liberale uomo del mondo.
Alberto.
E che bei doni profumati.
Nottola.
Da’ qua quegli altri bragoni.
Grillo.
Eccoli signore.
Nottola.
E pure in questi cacai l’altro giorno ancora! To’, non li voglio.
Alberto.
Signor maggiordomo, dicami, in grazia, come s’addimanda questo prencipe? il prencipe cacone?
Rampino.
Che cacone? Il suo nome non si può dire; bastivi ch’è detto Nottola. Oh, vedete che i paggi vengono, verrà anch’egli del sicuro.
Alberto.
Oh che servitù, oh che paggi, oh che ridicolose cose, atte a far ridere Eraclito e a far dire ad Arpocrate: «Furfantoni andate alla galea».
Grillo.
Ponete colà quella seggiola. State voi duo, uno di qua, uno di là, con quelle due ventaiole in mano. Cavatevi que’ capelli e tutti siate riverenti, ché ben sapete che il signore di voi m’ha dichiarato il maggiore.
Rampino.
Grillo?
Grillo.
Mio signore, che commanda vostra signorìa?
Alberto.
Si onorano fra di loro, questa canaglia, ch’è uno spasso.
Rampino.
Vuole il signore venire al fresco?
Grillo.
Sì signore, e io lo vado or ora a tôrre. E voi, galant’uomo, che domandate? Qui non ci stanno scrocchi, vedete?
Alberto.
Sì, perché da voi soli volete occupare il luogo. O che furbetto.
Grillo.
Che modo di parlare è questo, con gentiluomini?
Rampino.
Fermati Grillo.
Succiola.
Uh? una guanciata? Férmati, stàccati.
Alberto.
Furbo, pugna nel ventre? morsiconi nelle mani?
Grillo.
Furbaccio.
Rampino.
Sta’ fermo, cheti.
Alberto.
Fermati, serpentello.
Succiola.
Alberto, avertite, ché cotesta è una razza di nobiltà molto fantastica, vedete? Vi daranno delle busse e ve le terrete.
Alberto.
Tu se’ un fanciullo, e questo basta.
Grillo.
Te ne darò un’altra frotta! Va’, impara a conoscere figli di cavalieri.
Succiola.
Che domine avete vo’ nel gozzo? Mi fate venir voglia a me ancora di sgozzarvi, con un sorgozzo. Siete ben zotico daddovero.
Rampino.
Cheti, cheti. Ecco il signore.
Alberto.
Mo che foggia d’uomo è questa? Io sono confuso.
Nottola.
Maggiordomo, olà?
Rampino.
Mio prencipe.
Nottola.
Chi è stato quello che ha fatto rumore?
Rampino.
Grillo.
Nottola.
Grillo? Vien qua. Tu, paggio, lèvelo un po’ a cavallo.
Alberto.
O questo è ’l pazzo umore.
Nottola.
Paggio, tu pure gli disciogli le stringhe delle calze.
Altro paggio.
Ecco signore.
Grillo.
Signore, domando all’eccellenza vostra perdono, o, se almeno perdonar non mi vuole, non comporti che mi si levino le calze, poi ch’io ho un poco di rogna su le natiche.
Nottola.
Furfante, né per questo perdonar ti voglio. Dislacciatelo pure. Oh? Ora che hai le calze su le calcagna, alzolo a cavallo.
Grillo.
Uh, uh, uh.
Alberto.
Eh? Perdonategliela, signore.
Nottola.
E chi è costui che commanda a prìncipi? Bastonatelo.
Alberto.
Mio signore, son servo suo anch’io, in grazia, non tanto male.
Succiola.
In cervello, corpo di santanulla, allerta, signor Alberto, che vi so dire che testè vi siete accozzato bene.
Alberto.
Incomincio aver paura di questa bestia, io.
Nottola.
Or sù, perché vedo che pure a Succiola dispiace ch’io faccia staffilar Grillo, gli perdono.
Succiola.
O che non possiate vo’ meno morto fracidire, i’ vi ringrazio, e la mano vi bascio.
Nottola.
Datemi da sedere.
Succiola.
Fatevi in là, bricconi, ch’io vo’ esser quella. Fatti in là tu, pecorone, se non, con un sputo tutto ti schicchero.
Nottola.
O Succiola galante.
Alberto.
O con che gravità siede.
Nottola.
Madonna Succiola, e che diavolo di puzzore è questo ch’è per questa contrada? Pigliate qua questo borsellino. Andate a comperar venti secchi d’acqua di cedro e venti altri d’acqua rosa, e due volte al giorno, con iscope di mortella fiorita e di gelsomini di Spagna, fate che tutta questa contrada sia spazzata.
Alberto.
O che sento! Al sicuro debbe aver quella gobba non d’oro, ma di diamanti e di carbonchi.
Nottola.
Maggiordomo, queste non sono ventaiole da pari nostri. Che si ponghino or ora quattro su le poste, con cento milla scudi per uno, perché voglio che si trovi la Fenice, quel bell’uccellino, che tanto si nomina, e, ritrovato, far di modo ch’io abbia le sue ale e con quelle mi si faccia vento. Anzi, i manichi di queste ventaiole voglio che siano di duo pezzi di grosissimo rubino, che ben molti honne nel mio tesoro.
Succiola.
Or che dite? Adesso è ’l tempo di levarsi la zacchera alla veste? Oh sennuccio mio caro, o principuccio mio bello.
Alberto.
Sta ferma pazzarella, tieni a te le mani! Se te l’ho da dire, mi paiono scherzi e novelle queste sue.
Succiola.
Che canta favole? che studio vogliato? Anch’io lo credeva.
Eccellentissimo signore, tanto spiando andai, che il palazzo ritrovai alla fine.
Nottola.
Sì?
Succiola.
E cotesto messere n’è il padrone. Fatevi innanzi. Uh?
Che omaccio tondo, ci vogliono e’ pungoli! o che sguaiato.
Alberto.
È vero, signore, io ho il palazzo.
Nottola.
Piano, non vi accostate tanto, fatevi indietro duo gran passi.
Alberto.
Ecco, signore, uno e dua, a quest’altro passo a rivedersi in piazza.
Succiola.
Saido, saido, Alberto.
Nottola.
Mastro di casa?
Rampino.
Signore?
Nottola.
Cercategli un poco addosso.
Rampino.
Ecco, lo fo, signore. State fermo, messere.
Alberto.
E perché questo a me, signore?
Nottola.
Piano, piano, non v’alterate! Abbiamo nemicizia e vogliamo a chi parla con noi sia guardato addosso.
Rampino.
Non ha ferro micidiale alcuno, signore.
Nottola.
Messere, io non tratterò con voi di prezzo, ma con doni e favori. Accostatevi, ché vi diamo l’auttorità.
Alberto.
Eccomi avanti, ch’io m’avvicini più?
Nottola.
Sì, più ancora. Ancora, ancora. Ora inginocchiatevi qui da me.
Alberto.
Io voglio vederne il fine. Eccomi inginocchiato.
Nottola.
Chinate il collo.
Alberto.
Succiola ?
Succiola.
Olà?
Alberto.
Che questo non fosse il boia. Eccolo chino.
Nottola.
Vi getto al collo questa catena di cinquecento scudi d’oro.
Succiola.
Or che dite, non siete ora un baccellone? Bisogna ch’i’ ve lo dica, son libera vedete.
Alberto.
Signore, d’ogni considerazione cattiva, che tante state sono, che di vostra signorìa ho fatto, le ne chiedo umilissimo perdono.
Nottola.
Orsù, che vediamo il palazzo. E pregate il Cielo che ne piaccia, perché lo potressimo volere in dono.
Alberto.
Il Cielo no’l voglia! Ohimè, questa catena mi tira giù il collo. Ma caro signore, perché andare così in abiti vili? Perdoni, se tanto si ricerca.
Nottola.
Eh? Volete troppo. Vi darò delle pugnalate, io!
Alberto.
Mi perdoni, signore, se troppo ho osato.
Rampino.
Le sue grandi nemicizie non comportano che s’intendino cotai fatti. Non vedete com’è in collera?
Succiola.
Signor Alberto, l’avete errata cotesta fiata. Che domine vi far andar cercando se per via di lardo o di cascio va il topo alla trappola?
Nottola.
Or via, fatemi vedere il palazzo, ché m’è passata la collera.
Alberto.
Sì signore è qui. Or ora gli lo fo vedere.