Lo schiavetto/Atto quarto/Scena IV

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Atto quarto - Scena IV

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Prudenza, Nottola, Fulgenzio, Rampino, Grillo, Cicala

Prudenza.
Chi batte?
Nottola.
La nobiltà di tutti i prìncipi di Spagna e di tutti i baroni di Francia. O ecco Prudenza.
Prudenza.
Ecco ogni noia per me, ma bisogna simularlo, conforme quello che mi disse il mio amoroso precettore. Con ogni debita riverenza, mio consorte e signore, le m’inchino.
Nottola.
Signora, non è vero principe quello che sta più d’un’ora fermo in un proponimento; per tanto dirò (a dirvela a lettere maiuscole) che mi siete omai venuta in fastidio; sì che prevedetevi pure d’altro marito.
Prudenza.
O Signore, il principe che, ne’ gravi e degni pensieri, esser dee più ben fondato che duro scoglio nel mare e noderosa quercia in monte, oggi adunque dovrà mostrare tanta leggerezza.
Nottola.
Ben si vede che siete una femminuccia, poi che leggerezza chiamate quello ch’esser dee nomato sommo sapere. Ma non più parole, tocca la mano a questo mio gentiluomo.
Prudenza.
Come? O questa sì che sarebbe piacevole.
Nottola.
Or sù, m’intendete voi? Date qui questa mano, fate presto.
Prudenza.
Dico che non voglio. Fermatevi signore.
Nottola.
Do’ sfacciata, piglia questo.
Prudenza.
O poverina me, una guanciata? Uh uh uh.
Fulgenzio.
Eh, vostra signorìa non le dia.
Nottola.
Tu mi commandi? To’ questo. A chi ti pensi di parlare?
Fulgenzio.
Sua eccellenza mi scusi e mi perdoni.
Nottola.
Da’ qui questa mano.
Prudenza.
O me misera, a questa foggia? Non lo voglio, no no nonò.
Nottola.
Tu lo piglierai rabbiosaccia, sì, sì, sì, sì! Tocca qui dico. O fa’ un poco ch’ora ei non sia tuo!
Prudenza.
No, che non sarà.
Nottola.
No? Tu lo vedrai. Fa’ che alla più lunga alle ventiquattro tu sia in guardia di ricevere il marito, perché come io torno voglio che si consumi il matrimonio. Fulgenzio vien meco, al palazzo. Tenetemi dietro, canaglia, e guardatevi, ché sono in collera, perché tanto offendo con le parti di dietro, quanto con quelle dinanzi, quasi toro bavoso e mugghiante, che tanto co ’l calcio, quanto co ’l corno offende.
Fulgenzio.
Addio, mia cara consorte.
Prudenza.
Io vostra consorte? Più tosto mi voglio levar la vita.
Fulgenzio.
Voglio ben che moriate, ma di quella morte maritale, sì onesta e sì gradita, che morendo dà vita. Addio, mia cara sposa addirata.
Prudenza.
Misera, ancor mi beffa, il traditore. Oh addolorata anima mia, e a qual maggior dolore aspetti di uscire da questo tuo mortale? Or sì, Orazio mio, che disperate sono le mie speranze di teco fuggire, poiché invidiosa fortuna, prima che tu m’involi, vuole ch’a te involata io sia. E sarà vero? e solo in pensarlo non mi leva da i vivi e non mi dà in preda a i morti? Ahi che affanno, ahi che lagrime, ahi che sospiri, ahi che umor freddo mi sento scorrer per l’ossa! ohimè qual tenebroso velo gli occhi mi ammanta? ahi che lassezza, ohimè ch’io manco, io cado, io moro.