Lydia/III
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III.
Nel salotto parcamente illuminato da una lucerna ad olio, don Leopoldo, colle spalle al caminetto, aspettava.
Era in abito nero, colla giubba, la cravatta bianca; i guanti di pelle paglierina giacevano sullo sporto del caminetto. Era ben pettinato, coi pochi capelli grigi divisi a sinistra, tagliati corti, semplice e modesta cornice al suo volto di vecchio gentiluomo. La figura alta ed asciutta lasciava qualche vuoto nell’abito; ma il portamento nobile e disinvolto correggeva quel leggero difetto.
La fisionomia di don Leopoldo, molto calma, non lasciava trapelare alcuna impazienza. Da molti anni avvezzo a vivere per gli altri, essendosi fatto un dovere di accompagnare dappertutto la vedova cognata, si preparava adesso a estendere la sua missione di perfetto cavaliere anche su Lydia; ma dovendo quella sera condurre la nipotina al suo primo ballo, la calma di don Leopoldo era forse più superficiale del solito. In fondo sentiva l’importanza di quel primo passo nel mondo, mosso da una fanciulla adorata e viziata, che non avrebbe mai potuto, per quanti meriti possedesse, trovare in società la sconfinata indulgenza che avevano per lei la mamma e lo zio.
E almeno don Leopoldo vedeva. Al suo fine tatto, alla sua educazione correttissima non sfuggivano le pecche di un caratterino tutto fuoco, che avrebbe avuto bisogno di grandi freni; ma la madre non vedeva, nè udiva.
Grassa borghese, romantica e indolente, ella si era adagiata nel benessere della casa aristocratica senza assorbirne i principii. Aveva le vedute corte, la bontà comoda e una mezza virtù a cui non erano mai occorsi serii assalti. Viveva sulla sua poltrona, leggendo romanzi e baciando sua figlia ogni volta che se la trovava a portata; motivo per cui dicevano di lei: Che madre amorosa!
La poltrona, lasciata vuota da donna Clara, allargava appunto le braccia accanto al fuoco, e don Leopoldo vi figgeva sopra gli occhi, meditabondo; senonchè, dietro la poltrona, il magnifico pianoforte a coda, tutto aperto, colla tastiera biancheggiante nell’angolo buio, attrasse la sua attenzione. Si mosse con lentezza e andò a chiuderlo; gli capitava spesso di chiudere il pianoforte, quando Lydia aveva suonato.
— Come tutto cambia, tutto — pensava il vecchio gentiluomo, fissando ora lo sguardo sulla musica all’ingiro. — Ebbrezze, diceva il titolo di una romanza, che attirava l’attenzione per una copertina color perla, sulla quale spiccava il torso nudo e procace di una donna.
Sorrise, rammentando ciò che gli aveva detto un giorno una sua parente educata in monastero: che le suore disegnavano a matita i camicioli per gli amorini, svolazzanti sui frontispizi di certe musiche.
— Come tutto cambia! e — il sorriso scomparve — migliora? — si domandò don Leopoldo.
Una ruga apparve sulla sua fronte.
Guardava nel vuoto, al di sopra del pianoforte, dove la lucerna non mandava nessun raggio. Gli sembrava vedere nell’evocazione di larve passate, altri pianoforti, altre musiche dal titolo sentimentale, sulla cui copertina un’arte pudica faceva sorgere donne bianco-vestite, dalle forme parche, dai corpi sottili d’angelo o di fata. Un dolce tumulto di memorie, di sogni giovanili, un’eco di canti lontani, tutto un mondo sfumato, svanito, gli colorì lentamente le guancie, come se gli fosse passato accanto un soffio dei suoi vent’anni.
Scosse il capo, dubbioso, preso da un’improvvisa tristezza; e tornò davanti al caminetto, ritto, guardando la fiamma.
L’idea fissa lo incalzava: — Come tutto cambia! Laggiù, in quella grande scatola giapponese, ci doveva essere ancora l’ultima bambola di Lydia: una rosea bionda cogli occhioni provocatori; col petto riccamente imbottito; le braccia tonde, nude, lisce come raso; le gambuccie aggraziate di donna fatta. Teneva in mano — almeno quand’era nuova — uno specchietto e un piumino di cipria.
La differenza era enorme colle bambole che egli aveva viste trascinare per casa cinquanta o sessant’anni prima; tutte di legno, piatte, angolose, con un cavicchio per ogni giuntura, i capelli formati con vecchie calze sfatte...
E ripensò alle donne che avevano giuocato con quelle bambole, sorridendo ancora nella dolcezza delle memorie.
La portiera, bruscamente sollevata, lasciò passare Lydia, che piombò come un razzo a metà del salotto.
— Guardami, zio.
Ella disse queste parole con aria trionfante, sicura del suo effetto; e siccome don Leopoldo, strappato alle visioni, non rispondeva subito, soggiunse:
— Guarda come sono bella!
— Sì... sei bella.
— In qual modo lo dici! Ma che pensi?
Don Leopoldo pensava che la bambola chiusa nella scatola giapponese aveva fatto bene la sua lezione; Lydia le assomigliava un poco. Tuttavia ripetè, convinto, con una galanteria da cui trapelava l’affetto:
— Sei carina, come sempre.
— Che piacere! come mi voglio divertire!
Ella batteva le mani, solamente le mani, tenendo il corpo rigido nell’alto busto, equilibrata a stento sui talloncini delle scarpe.
Non era veramente bella, come si immaginava lei di essere e come forse la vedeva l’occhio indulgente di don Leopoldo. Era una figurina piccante, originale; molto piccola di statura, snella, con piedi e mani inverosimili, con una quantità di bellezzine minute che si perdevano nel colpo d’occhio generale. Camminava a passettini, a salterelli; un incedere da bestiolina graziosa, senza dignità, ma con una certa eleganza. La testa, piuttosto stretta sui polsi e allungata nella nuca, aveva un’espressione intelligente e fina; gli occhi erano larghi e ridenti, il nasino camuso, la bocca canzonatrice, il mento fuggente; tutto il resto del volto di una irregolarità armonica, intonata. Aveva le orecchie piccolissime, non forate, che sembravano due conchigliette rosee perdute fra i capelli; e i capelli stessi non erano la parte meno bizzarra di questa leggiadra creatura; bruni di origine, a furia di arricciature, di polvere di riso, di bagni profumati e d’olio di nocciuole, avevano preso una gradazione chiara, tra il castagno e il biondo, variabile secondo i giorni e le ore. Per quella circostanza, il capriccio di Lydia li aveva sciolti sulle spalle, soffici, ondulati, riuniti all’estremità inferiore da un fiocco color di rosa; davanti le piovevano frangiati sulle sopracciglia arcuate o fine, e qualche ciocchettina più lunga delle altre le velava tratto tratto gli occhi. Il vestito di crespo, del colore di una pallida rosa, appariva sbuffante e come gettato a caso intorno al suo corpicino; ma sotto, una corazza di raso la imprigionava strettamente, esagerando i contorni, lasciando libere appena le braccia e le spalle denudate fino alla clavicola, che una ghirlandina di rose copriva. I guanti, intonati nella gradazione precisa dell’abito, si confondevano colla pelle, così che sembrava tutta un bocciuolo di rosa.
— Epperò sta bene, — mormorò a parte don Leopoldo.
Ella si accorse del successo, e l’espressione lieta le crebbe del doppio.
— Guarda, — disse ancora, sporgendo fuori dal lembo della gonna i pochi centimetri di raso rosa che coprivano il suo piedino.
A questo modo il trionfo era completo, o per lo meno la prova del trionfo, poichè ella aspettava ben altro che l’ammirazione del suo vecchio zio.
Che cosa aspettasse precisamente non lo sapeva nemmeno lei; ma era cresciuta nell’adorazione del lusso e della bellezza. Fin da piccina, quando sepolta negli alti ricami degli abitini bianchi, andava a spasso, colla bambinaia inglese, fin da allora le parole: «sta bene, è elegante, è vezzosa» le erano risuonate all’orecchio come promesse di una felicità futura.
Più tardi nei giuocatoli raffinati, negli oggetti d’arte, nelle incisioni dei libri, nei mobili, nei gingilli, in ogni piccola cosa che la circondasse, la ricerca continua del bello l’aveva abituata a mettere questo pregio al di sopra di tutti gli altri.
Sballottata dalla bambinaia alla governante, dal maestro di piano al maestro di disegno, senza un filo di connessione, senza una misura, con molti insegnanti, ma nessun educatore, ella era cresciuta libera in una società dove tutto è vincolo e finzione; accettando il bello naturalmente perchè non aveva bisogno di spiegazioni, e ignorando in modo assoluto tutto ciò che non aveva un rapporto diretto coi sensi.
Era figlia de’ suoi tempi; aveva il sangue misto, parte di decadenza aristocratica e parte di insolenza borghese arrivata in alto. Molto intelligente, chiudeva in sè i germi del bene e del male, ma nessuno sviluppato, nessuno dominante. La superficialità della sua educazione soffocava in lei ogni tendenza individuale. Con tutto questo era persuasa d’essere, oltre che la più bella, la più buona delle fanciulle.
— E tu, zio, sei allegro?
Disse così, passando la mano con civetteria sotto il mento del vecchio gentiluomo.
— Allegro!
Egli non aveva nessuna ragione per esserlo; a sessant’anni una festa da ballo è un sacrificio. Ma le ipocrisie della gentilezza erano famigliari a don Leopoldo, che rispose:
— Molto allegro.
Per tal modo Lydia non ebbe nemmeno il più lontano rimorso: al contrario, credendo che suo zio dovesse interessarsi a tutto quanto interessava lei stessa, continuò:
— Sai come sarà vestita Costanza?
— No.
— Di celeste. Sta bene in celeste; è un colore che si armonizza perfettamente col suo genere di bellezza. Che genere pare a te?
— La bellezza della signorina Arimonti? Ma... mi pare un genere serio, con una intonazione di dolcezza nello sguardo, che mi fa supporre in lei un’anima sensibilissima.
— Oh! sì, sensibilissima — ribattè Lydia; ma dall’accento si capiva che il suo pensiero era già altrove.
— Quella è una buona amica — riprese don Leopoldo — una mente elevata, un cuore nobile...
— Costanza è stata molte volte ai balli, sai? Ha quattro anni più di me...
Senza finire la frase, Lydia attraversò d’un balzo il salotto, dando l’idea di una foglia di rosa portata dal vento. Ella aveva scorto, sopra un tavolino, un mazzetto di viole mammole.
— A momenti le dimenticavo.
Si pose davanti allo specchio, cercando un posticino, sulla sua persona, per le viole. Provò a metterlo nel mezzo del seno, poi da una parte, poi sulla spalla.
— Alla cintura forse... — suggerì timidamente don Leopoldo.
Ella si voltò a guardarlo:
— Che bravo zio! Ma te ne intendi tu di queste cose?
Lo guardava fìsso, coi begli occhi ridenti, dove brillava una punta di malizia. Egli ne fu turbato, e per darsi un contegno incominciò a infilare i guanti.
Entrò donna Clara, tutta avvolta nel mantello bianco foderato di pelliccia.
— Oh! mamma, ci hai sorpresi. Stavo confessando lo zio. A momenti mi faceva la confidenza del suo primo amore.
Donna Clara non rilevò la frase; don Leopoldo arrossì lievemente. Avrebbe voluto dimostrare alla sua nipotina che l’osservazione era sguaiatella... ma Lydia sembrava così felice, così raggiante e rosea e piena di gaiezza, che non ebbe cuore di conturbarla.
— A un’altra volta — pensò.