Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXIV
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Toto, sollecitato da Geltrude, aveva ceduto il proprio negozio, perché intendeva ritirarsi dagli affari. Era abbastanza ricco per poterlo fare e non gli pareva vero di poter dedicare tutta la sua vita alla moglie, i cui trasporti erotici erano da parecchio tempo diventati inebbrianti. Egli non sapeva spiegarsi quella metamorfosi strana, ma ne accettava i benefici, senza indagarne la causa. Forse nella vanità che è innata nell’animo umano, la attribuiva all’ardenza del suo amore, alla gagliardia dei suoi amplessi.
Geltrude era in preda ad una straordinaria sovreccitazione erotica. I suoi ritrovi coll’amante non bastavano a saziarla: se ne ripagava col marito. Poi quando l’effervescenza della passione era calmata, questi le destava una ripugnanza invincibile. Ma era abbastanza destra, e già abbastanza corrotta per dissimularla. Il pensiero però che rinunziando al negozio ed agli affari si sarebbe trovata in piena balìa di quell’uomo, che se lo avrebbe avuto sempre al fianco, che non le verrebbe più fatto di incontrarsi col suo idolo, l’atterriva e la raffermava nel feroce proposito già formato di sbarazzarsi di lui. Quella notte doveva essere l’ultima del suo supplizio. Bisognava uscire ad ogni costo da una situazione insostenibile.
Aveva in casa un lungo ed affilato coltello, che pareva fatto con un pezzo di lama di spada, foggiato a pugnale. Mentre, estenuato dalla lotta amorosa s’era assopito, Geltrude scese pian piano dal letto e andò a munirsi di quel micidiale strumento. Ritornando si accorse che il marito aveva aperti gli occhi e si affrettò a nascondere l’arma sotto il guanciale. L’uomo si svegliò di fatto e le domandò:
- Che hai, Geltrude?
- Nulla, amor mio, rispose la perfida.
- Perché non dormi?
- Sono tutt’ora in preda all’ineffabile piacere che mi hai arrecato.
- Sei un angelo!
Per tutta replica Geltrude gli cinse un’altra volta il collo colle bianche braccia, squisitamente modellate e cacciandogli la mano dalle dita rosee e affusolate nei capelli, l’attirò a sé e lo baciò sulla bocca.
Fu una nuova giostra, lunga, terribile, snervante, in capo alla quale il povero marito giacque completamente spossato, rifinito di forze, impossibilitato a muovere un braccio a sua difesa. Geltrude stette per lunga pezza sorridente a vederlo ed egli, l’incauto, si addormentò tranquillamente, accarezzato da quello sguardo, che credeva pieno d’amore e di riconoscenza.
Quando si fu assicurata che il marito era immerso in un sonno duro e profondo, Geltrude balzò dal letto seminuda come era e afferrato il pugnale, con un terribile colpo glielo immerse nel petto spaccandogli il cuore.
Il disgraziato non mandò un lamento, spalancò gli occhi e tosto li richiuse, quasi non volesse conoscere la persona che lo aveva colpito. Dopo brevi momenti era morto e irrigidito nel letto. Geltrude gli coprì il capo colle coltri, lasciandogli infisso il pugnale nella ferita; quindi si accinse a vestirsi tranquillamente, senza un’ombra di terrore o di rimorso. Il primo ostacolo alla sua felicità lo aveva rimosso la sorte, facendo morir di parto la moglie del suo amante. Giudicava pertanto naturale ch’essa avesse a toglier di mezzo l’altro. Quell’uomo, anziano, brutto, avea goduto anche troppo di lei. Non poteva dire di averla pagata troppo cara.
Tali i pensieri dell’assassina, mentre compiva i preparativi della partenza.
Raccolti tutti i suoi effetti preziosi, i denari che il marito aveva ritratti dalla vendita del negozio già effettuata, e i valori che possedeva, e messili in una valigia, che richiuse co’ suoi indumenti necessari e colla biancheria, mise il resto dei suoi effetti in un’altra valigia, e pian piano uscì, serrando la porta accuratamente.