Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XCI
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Serafino Benfatti era un uomo aitante della persona, forte come un toro e violentissimo. A queste sue qualità aggiungeva quella di essere un dissipatore di primo ordine, un famoso gozzovigliatore e un dissoluto di prima forza, per il quale il maltalento era legge. Aveva condotto in moglie una leggiadra e soavissima giovinetta Perugina, da lui conosciuta ad Ancona, ove si era recata colla famiglia per le bagnature. Capo di una casa commerciale di molto credito, che teneva in mare parecchie navi, non aveva incontrato soverchie difficoltà per ottenerla in isposa.
Sulle prime Serafino pareva pazzamente innamorato della sua Cesarina, e questa corrispondeva alla sua passione con tutto il fervore di cui era capace. Ma il suo carattere riservato e il suo temperamento delicato non le consentivano quei trasporti, quegli slanci, quelle pazzie che il marito avrebbe desiderato.
Incominciò quindi il Benfatti a raffreddarsi e in breve volgere di tempo la moglie gli venne in uggia. Allora tornò alla vita di dissipazione che aveva incominciata, alla morte di suo padre, quando gli era succeduto nelle ragioni della ditta. Amoreggiò con donne di ogni qualità, spendendo molto più che non gli permettessero i suoi redditi; per rifarsene si diede a giocare sfrenatamente e perdette somme enormi. Ridotto al verde, cercò di intascare il patrimonio della moglie, ma questa, nauseata della sua condotta, si oppose con una energia della quale non la si sarebbe supposta suscettibile.
Di qui, scene violente, terribili, minaccie e percosse.
Cesarina, stanca di quella vita di continui strazi, ricorse alla sua famiglia, la quale rafforzata dall’appoggio di un esperto avvocato, fece chiedere ed ottenere una separazione.
Serafino Benfatti ne parve soddisfatto e non si oppose menomamente, che sua moglie ritornasse a Perugia, per vivere co’ suoi parenti.
A questa acquiescenza c’era però una ragione: il traviato aveva stretto una relazione amorosa con Maria Rossetti, giovane donna di temperamento sanguigno, che meglio si confaceva al carattere di lui. Erano due esuberanze fisiche che si equilibravano e compenetravano.
Maria non era al suo primo amore, forse non era più neanche al secondo; ma, pur abbandonandosi completamente al Benfatti, senza ritegni e senza riguardi, non voleva saperne di mettersi con lui, e di vivere pubblicamente in concubinaggio, com’egli pretendeva.
- Vieni a star con me - le diceva spesso in mezzo ai suoi trasporti amorosi - fammi felice del tutto: io ho bisogno di averti a fianco ad ogni ora del giorno e della notte.
- Impossibile.
- Perché, impossibile?
- Lo sai pure.
- Dillo.
- Tu non sei libero. Hai una moglie...
- Che ha voluto separarsi da me.
- Non cessa per questo d’esserti moglie.
- E lo credi giusto?
- Non sarà giusto, ma è così. Io posso compatirti, compiangerti, anche amarti, come realmente t’amo, prodigarti la mia persona, come te la prodigo, ma non posso usurpare il posto che appartiene ad un’altra donna.
- Chi te lo vieta?
- La società innanzitutto.
- Poi?
- La mia coscienza. Io la detesto quella donna, tanto che potrei ucciderla; ma non surrogarla mentre vive.
Queste parole si figgevano nel cerebro di Serafino Benfatti e gli tornavano spesso alla mente; gli sembrava di udirne il suono, e cercava in essa un consiglio, un’esortazione, un incitamento a liberarsi di Cesarina.
Intanto i suoi affari andavano alla peggio. Perdette in un anno due bastimenti col carico e la sua rovina fu completa.
Non gli restava che liquidare il poco che gli era rimasto e prendere imbarco su qualche naviglio mercantile.
Ed è appunto ciò che egli decise di fare.