Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XXXVII

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Capitolo trentasettesimo - Il delirio del terrore

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In quel mentre riapparve l’oste, il quale aveva veduto lo scambio delle monete e calcolato quanto potevano contenere le due borse:

- Se i signori desiderassero riposarsi qui, disse umilmente il Castri, ho un buon letto, ci metterò della biancheria di bucato e io dormirò qui su di una panca.

Gustavo consultò lo zio con un’occhiata prima di rispondere. Il cacciatore anziano si accostò alla porta e vide che il cielo era terso e biancheggiante per la luna.

- No, grazie, padron Carlo. Vogliamo tornare a Roma questa sera. Il tempo è bello. Fa freddo, ma siamo ben coperti.

L’oste si inchinò.

- Il conto? domandò Gustavo.

- Oh! ben poca cosa. Facciano il piacer loro.

Il cacciatore anziano tirò fuori un’altra volta la borsa, ne trasse due zecchini e li buttò sopra un piatto rimasto sulla tavola.

- A voi, padron Carlo. Teneteci sempre riservato un bicchiere di vino, come quello che ci avete ammannito stasera. È veramente buono.

- E il signor Iddio li indirizzi spesso da queste parti, rispose l’oste, i cui occhi brillavano di cupidigia.

Sciolti i cani, i cacciatori uscirono colle carabine ad armacollo e si misero per un sentiero traversale che dopo aver serpeggiato per buon tratto, scende verso l’Arco Oscuro. Ma avevano fatto non più di un centinaio di passi che uno dei cani emise un gemito acuto e cadde al suolo; l’altro non tardò a fare altrettanto.

- Che hanno queste bestie?, domandò colto da un vago sospetto l’anziano, e si chinò verso le due povere bestie che si erano trascinate verso un cespuglio e non davano più segni di vita.

D’un tratto rintronarono due colpi di fucile nella solitudine della notte e i due cacciatori cadevano esamini accanto ai cani. Erano stati colpiti entrambi in pieno petto e quasi a bruciapelo, dal fucile di Carlo Castri, nascosto dietro una siepe, alla quale era giunto prima di loro, per un sentieruccio scosceso. Il brigante balzò fuori non appena li vide caduti e con due coltellate li finì. Poi caricatiseli un per uno sulle spalle, li trasportò nella macchia vicina, altrettanto fece dei cani, che aveva avvelenati prima dell’uscita dei cacciatori dalla sua osteria. Scavò rapidamente una fossa e vi gettò i due cani ricolmandola tosto col terriccio; poi s’accinse a fare il medesimo coi due cadaveri, che aveva spogliati nudi, per non perder nulla di quanto era di loro proprietà.

Nella chiarezza del plenilunio la fisonomia dei due assassinati aveva assunto agli occhi dell’oste un carattere strano, minaccioso. Egli era invaso da un panico che non aveva mai provato in vita sua. Cercava di forzare nella fossa non abbastanza profonda le due teste dei cacciatori, ma queste pareva che balzassero fuori, come mosse da un’interna susta. La tramontana faceva stormire le fronde degli alberi e a Castri sembrava che quello fosse un suono di voci confuse avvicinantesi a lui. In breve fu in preda al delirio del terrore. Picchiava ferocemente colla zappa sulle teste dei due sepolti e non perveniva a farle scomparire. La luna ritornava ad illuminarle e a lui pareva sogghignassero. Si alzò, raccolse gli indumenti loro e si mise a fuggire. Ma fatti pochi passi cadde in preda ad un deliquio.

Sull’albeggiare due contadini trovarono i cadaveri sepolti, coi capi che uscivano dal suolo e corsero a darne avviso, benché sgomenti, ai birri che incontrarono sulla via Flaminia. Questi rinfrancatili, si fecero condurre sul posto e rovistando intorno trovarono l’oste tutt’ora svenuto, col corpo del delitto, cioè la roba rubata fra le braccia. Dovettero levarselo sulle braccia e trasportarlo all’Arco Oscuro, dove depostolo sopra un carretto, fortemente e solidamente legato, lo fecero trasportare alle carceri di Roma, seguito da un di loro. Gli altri operarono il diseppellimento dei due cacciatori.

Carlo Castri sempre in preda al delirio febbrile stette parecchi giorni fra morte e vita, ma le premurose cure dei carcerieri e dei medici addetti alle carceri lo salvarono e si poté istruire il processo a suo carico. Schiacciato dalle prove del suo delitto, non tentò di negare, confessò la grassazione dei due cacciatori, ed altre ancora, esortato dai giudici, i quali per istrappargli i segreti sino allora da lui così accortamente custoditi, gli facevano balenare la probabilità della grazia, in premio della sua sincerità. E ad ogni nuova confessione il suo trattamento carcerario migliorava. Ma quando Carlo Castri, credette ormai di aver salvata la pelle, fu pronunziata la sentenza che lo condannava alla forca ed allo squartamento. Abbiamo già veduto come l’accogliesse e come espiasse la pena de’ suoi misfatti.