Michele Strogoff/Parte Prima/Capitolo XV. Gli acquitrini della Baraba

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Parte Prima - Capitolo XV. Gli acquitrini della Baraba

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Jules Verne - Michele Strogoff (1876)
Traduzione dal francese di Anonimo
Parte Prima - Capitolo XV. Gli acquitrini della Baraba
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CAPITOLO XV.

gli acquitrini della baraba.


Fu ventura che Michele Strogoff avesse lasciato così bruscamente la posta. Gli ordini d’Ivan Ogareff erano stati subito mandati a tutte le uscite della città ed i suoi connotati a tutti i capi di poste, affinchè egli non potesse lasciar Omsk. Ma in quel punto egli aveva già valicato una delle breccie del recinto, e il suo cavallo correva per la steppa; non essendo stato immediatamente inseguito, egli doveva riuscire a non lasciarsi cogliere.

Era il 29 luglio, alle otto pomeridiane, che Michele Strogoff aveva lasciato Omsk. Questa città si trova pressochè a metà strada da Mosca ad Irkutsk, dove gli bisognava giungere fra dieci giorni, se voleva passare innanzi alle colonne tartare. Evidentemente la combinazione deplorabile che lo aveva condotto in faccia a sua madre aveva tradito il suo incognito. Ivan Ogareff non poteva più ignorare che un corriere dello czar era [p. 73 modifica] E si precipitò nel fiume. (pag 99). [p. 74 modifica]passato ad Omsk, dirigendosi verso Irkutsk. I dispacci che portava questo corriere dovevano essere d'un’importanza estrema. Michele Strogoff sapeva che si avrebbe fatto di tutto per impadronirsi di lui.

Ma ciò che egli non sapeva, ciò che egli non poteva sapere, è che Marfa Strogoff era nelle mani di Ivan Ogareff, che essa doveva pagare forse colla vita l’impeto che non aveva potuto trattenere trovandosi a un tratto in presenza di suo figlio! Ed era fortuna che egli lo ignorasse; avrebbe forse potuto resistere a questa nuova prova?

Michele Strogoff affrettava dunque il suo cavallo comunicandogli tutta l’impazienza febbrile che lo divorava, non gli domandando che una cosa, cioè di portarlo rapidamente sino alla nuova posta dove potesse barattarlo con un veicolo più rapido.

Alla mezzanotte egli aveva percorso settanta verste e s’arrestava alla stazione di Kulikovo. Ma colà, come temeva, non trovò nè cavalli nè carrozze. Alcuni drappelli tartari avevano passato la gran via della steppa; tutto era stato rubato e requisito, così nei villaggi, come nelle case di posta. A mala pena Michele Strogoff potè ottenere un po’ di cibo per il suo cavallo e per sè.

Gli premeva dunque di risparmiarlo questo cavallo, perchè non sapeva più quando e come potrebbe sostituirlo. Pur volendo mettere il più gran spazio possibile fra sè ed i cavalieri che Ivan Ogareff doveva aver lanciato ai suoi calcagni, risolvette di spingersi più innanzi. Dopo un’ora di riposo, egli ripigliò dunque la corsa attraverso la steppa. [p. 75 modifica]

Fino allora le condizioni ammosferiche avevano fortunatamente favorito il viaggio del corriere dello czar. La temperatura era sopportabile. La notte, brevissima in quel tempo, ma rischiarata da quella mezza luce della luna navigante attraverso le nuvole, rendeva la via praticabile. D’altra parte Michele Strogoff viaggiava da uomo sicuro del suo cammino, senza dubbî od esitazioni di sorta. Non ostante i pensieri dolorosi che lo assediavano, egli aveva serbato un’estrema lucidità di spirito e camminava dritto alla meta, come se questa fosse stata visibile all’orizzonte. Quando si fermava un momento a qualche svolta della via, era per lasciar ripigliare fiato al suo cavallo. Allora egli metteva piede a terra per alleviarlo un istante, poi appoggiava l’orecchio al suolo ed ascoltava se non si propagasse alla superficie della steppa qualche rumore di cavalli galoppanti. Quando non aveva alcun sospetto, ripigliava le mosse e tirava innanzi.

Ah! se tutta questa regione siberiana fosse stata invasa dalla notte polare, da quella notte permanente di molti mesi! — Questo avrebbe desiderato Michele per attraversarla più al sicuro.

Il 30 luglio, alle nove del mattino, Michele Strogoff oltrepassava la stazione di Turumoff e si gettava nella regione acquitrinosa della Baraba.

Colà, sopra uno spazio di trecento verste, le difficoltà naturali potevano essere estremamente grandi. Egli lo sapeva, ma sapeva pure che doveva superarle ad ogni costo.

I vasti acquitrini della Baraba, compresi da nord a sud fra il 60° ed il 52° parallelo, servono di serbatojo a tutte le acque piovane che non trovano sbocco nè verso l’Obi, nè verso l’Irtyche. [p. 76 modifica]Il terreno di questa vasta depressione è interamente argilloso, perciò impermeabile, di tal guisa che le acque vi soggiornano e ne fanno una regione difficilissima da attraversare durante la stagione calda.

Colà peraltro passa la via da Irkutsk, ed è in mezzo a pozze, a stagni, a laghi, a pantani di cui il sole suscita le esalazioni malsane, che essa si svolge colla massima fatica e spesso col massimo pericolo del viaggiatore.

D’inverno, quando il freddo ha solidificato tutto ciò che è liquido, quando la neve ha livellato il terreno e condensato i miasmi, le slitte possono facilmente ed impunemente scivolare sulla crosta dura della Baraba. I cacciatori frequentano allora assiduamente la regione ricca di selvaggina, inseguendo le martore, i zibellini, e quelle preziose volpi, la cui pelliccia è tanto ricercata. Ma d’estate il pantano ridiventa fangoso, pestilenziale, impraticabile, anche quando il livello delle acque è troppo alto.

Michele Strogoff spinse il suo cavallo in mezzo ad una prateria torbosa, non più rivestita di quell’erba rasa delle steppe, unico alimento degli immensi greggi siberiani. Non era più la prateria senza confini, ma una specie di immenso boschetto di vegetali arborescenti.

La zolla s’elevava allora a cinque o sei piedi d’altezza. L’erba aveva ceduto il luogo alle piante acquitrinose, alle quali l’umidità, ajutata dai calori estivi, dava proporzioni gigantesche. Erano principalmente giunchi e butomi che formavano una rete inestricabile, un impenetrabile viluppo sparso di mille fiori, notevoli per la vivacità dei colori, fra i quali brillavano i gigli e le iridi, i [p. 77 modifica]cui profumi si mescevano ai caldi vapori esalati dal suolo.

Michele Strogoff, galoppando fra quei boschetti di giunchi, non era più visibile dei pantani che fiancheggiavano la via. Le grandi erbe s’innalzavano più su di lui medesimo, e il suo passaggio era solo segnalato dal volo di innumerevoli uccelli acquatici che si sparpagliavano gridando nelle profondità del cielo.

La via era nettamente tracciata, qui essa si allungava direttamente fra il fitto delle piante acquitrinose, colà contornava le rive sinuose di vasti stagni, taluni dei quali, misurando parecchie verste di lunghezza e di larghezza, hanno meritato il nome di laghi. In altri punti non era stato possibile evitare le acque stagnanti che la via attraversava, non già sopra ponti, ma sopra piatteforme dondolanti, coperte di fitti strati d’argilla, ed i cui travi tremavano come una tavola troppo debole gettata sopra un abisso; talune di queste piatteforme si prolungavano sopra uno spazio di due o trecento piedi; più d’una volta i viaggiatori, od almeno le viaggiatrici dei tarentass, vi provarono un malessere analogo al mal di mare.

Quanto a Michele Strogoff, sia che il terreno fosse solido, ossia che cedesse sotto i suoi piedi, correva sempre senza arrestarsi, saltando i crepacci che si aprivano fra le travi imputridite. Ma per quanto presto corressero cavallo e cavaliere, non poterono sottrarsi alle punture di quegli insetti dipteri che infestano il paese acquitrinoso.

I viaggiatori obbligati ad attraversare la Baraba durante l’estate hanno cura di munirsi di una maschera di crini, alla quale è congiunta una cotta di maglie di filo di ferro che copre loro le spalle. [p. 78 modifica]Non ostante queste precauzioni, pochi sono coloro che escono da quei luoghi pantanosi senza aver il collo, la faccia, le mani crivellati di punti rossi. L’ammosfera sembra irta di spille finissime, e si avrebbe ragione di credere che un’armatura da cavaliere non basterebbe a proteggere contro il dardo dei dipteri. È quella una funesta regione che l’uomo contende a caro prezzo alle tipole, alle zanzare d’ogni fatta, ai tafani ed anche a miliardi di insetti microscopici, che non sono visibili ad occhio nudo e che solo si sentono dalle loro insopportabili punture a cui non fu mai cacciatore siberiano indurito che si potesse avvezzare.

Il cavallo di Michele Strogoff, tormentato da questi velenosi dipteri, faceva balzi come se gli fossero penetrati nei fianchi mille speroni insieme. Preso da pazza rabbia, esso s’impennava e valicava la verste, una dopo l’altra, di galoppo, battendosi i fianchi colla coda e cercando nella rapidità della corsa un lenimento al suo supplizio. Bisognava essere buon cavaliere come Michele Strogoff per non essere tolto d’arcioni dalle reazioni del suo cavallo, dalle sue brusche fermate, dai salti che faceva per sottrarsi ai pungiglioni dei dipteri. Divenuto, per così dire, insensibile al dolore fisico, come se fosse stato sotto l’influenza d’una anastesia permanente, vivendo solo nel desiderio di giungere alla sua meta ad ogni costo, una sola cosa egli vedeva in questa crisi insensata, ed è che la strada fuggiva rapidamente alle sue spalle.

Chi avrebbe creduto che questa regione della Baraba, così malsana durante i calori, potesse dare asilo ad una popolazione qualsiasi?

Ed era così tuttavia. Alcuni casolari siberiani [p. 79 modifica]apparivano tratto tratto fra i giunchi giganteschi. Uomini, donne, fanciulli, vecchi vestiti di pelli d’animali, colla faccia coperta di vesciche spalmate di pece, facevano pascere magri greggi di montoni; ma, per preservare questi animali dal morso degli insetti, li tenevano sottovento di fuochi di legna verde che alimentavano dì e notte, ed il cui acre fumo si propagava lentamente sopra l’immenso acquitrino.

Quando Michele Strogoff sentiva che il suo cavallo, sfinito dalla stanchezza, stava per cadere, allora si arrestava in uno di quei miserabili casali, e colà, dimentico delle proprie fatiche, strofinava egli medesimo le morsicature del povero animale con grasso caldo, secondo l’usanza siberiana; poi gli dava una buona razione di foraggio, e solo dopo d’averlo ben fasciato pensava a sè medesimo e ristorava le proprie forze mangiando qualche pezzo di pane e di carne e bevendo qualche bicchiere di kwass. Un’ora dopo, o due al più, egli ripigliava di galoppo l’interminabile strada d’Irkutsk.

Novanta verste furono così valicate dopo. Turumoff, ed il 30 luglio, alle 4 pomeridiane, Michele Strogoff, insensibile ad ogni fatica, giungeva ad Elamsk.

Colà bisognò dare una notte di riposo al cavallo, il quale non avrebbe potuto durare più a lungo in quel viaggio.

Ad Elamsk non esisteva alcun mezzo di trasporto, come non ne esisteva altrove per le medesime ragioni; mancavano, al par che nelle borgate precedenti, carrozze, cavalli, ogni cosa.

Elamsk, piccola città che i Tartari non avevano ancora visitato, era quasi interamente spopolata, [p. 80 modifica]perchè poteva essere facilmente invasa dal sud, e difficilmente soccorsa dal nord. Onde posta, uffizî di polizia, palazzo del governo, tutto era abbandonato, per ordine superiore, e da una parte i funzionarî, dall’altra gli abitanti che potevano emigrare, si erano ritirati a Kamsk nel centro della Baraba.

Michele Strogoff dovette dunque rassegnarsi a passare la notte ed Elamsk, per permettere al suo cavallo di riposare 12 ore. Egli si rammentava le raccomandazioni che gli erano state fatte a Mosca: attraversare la Siberia incognito, giungere ad ogni costo ad Irkutsk, ma in certa misura non sagrificare la riuscita alla rapidità del viaggio; perciò egli doveva aver cura dell’unico mezzo di trasporto che gli rimaneva.

Il domani, Michele Strogoff lasciava Elamsk al momento in cui venivano segnalati i primi guastatori tartari, 10 verste indietro sulla via della Baraba, ed egli si slanciava di nuovo attraverso la regione acquitrinosa. La via era piana, e ciò la rendeva più facile, ma era pure molto sinuosa, e questo l’allungava. Impossibile, d’altra parte, abbandonarla per correre in linea retta attraverso quell’insuperabile rete di stagni e di pozze.

Il dì di poi, 1° agosto, 120 verste più lungi, al mezzodì, Michele Strogoff giungeva al borgo di Spaskoe, ed alle due si fermava a quello di Pokrowskoe.

Il suo cavallo, affaticato dopo la sua partenza da Elamsk, non avrebbe potuto fare un passo di più.

Là, Michele Strogoff dovette perdere ancora, per un riposo forzato, la fine di questa giornata e tutta la notte; ma ripartito il domattina, correndo sempre attraverso il suolo semi-inondato, [p. 81 modifica]il 2 agosto, alle 4 pomeridiane, dopo una tappa di 75 verste, giunse a Kamsk.

Il paese era mutato. Questa borgatella di Kamsk è come un’isola abitabile e sana, situata in mezzo alla inospite regione. Essa occupa il centro medesimo della Baraba. Colà, grazie all’incanalamento del Tom, affluente dell’Irtyche che passa a Kamsk, gli acquitrini pestilenziali si sono trasformati in pascoli della massima ricchezza. Per altro questi miglioramenti non hanno ancora trionfato interamente delle febbri, e, durante l’autunno, rendono pericoloso il soggiorno di questa città; ma gli è ancora là che gl’indigeni della Baraba cercano un rifugio quando i miasmi paludosi li cacciano dalle altre parti della provincia.

L’emigrazione provocata dall’invasione tartara non aveva ancora spopolato la piccola città di Kamsk. I suoi abitanti si credevano probabilmente al sicuro nel centro della Baraba, dove, se non altro, immaginavano d’avere il tempo di fuggire se fossero minacciati direttamente.

Michele Strogoff, per quanto desiderio ne avesse, non potè adunque apprendere alcuna notizia in quel luogo. Anzi a lui medesimo il governatore si sarebbe rivolto, se avesse conosciuto la vera qualità del preteso mercante d’Irkutsk. Kamsk, infatti, per la sua situazione medesima, sembrava essere fuori del mondo siberiano e dei grandi avvenimenti che lo turbavano.

D’altra parte, Michele Strogoff non si mostrò che poco o punto. Più non gli bastava non essere veduto, avrebbe voluto essere invisibile. L’esperienza del passato lo rendeva sempre più circospetto per il presente e per l’avvenire; ond’egli si tenne in disparte, e poco curante di correre le [p. 82 modifica]vie della borgatella, non volle nemmeno lasciar l’albergo in cui era disceso.

Michele Strogoff avrebbe potuto trovare una carrozza a Kamsk e sostituire con un veicolo più comodo il cavallo che lo portava da Omsk. Ma dopo averci pensato molto, temette che la compera d’un tarentass attirasse l’attenzione sopra di lui; fino a tanto che egli non avesse oltrepassata la linea ora occupata dai Tartari, linea che tagliava la Siberia, pressapoco seguendo la valle dell’Irtyche, egli non voleva rischiare di far nascere sospetti.

D’altra parte per compiere la difficile traversata della Baraba, per fuggire attraverso al pantano nel caso che qualche pericolo l’avesse a minacciare troppo direttamente, per lasciarsi indietro i cavalieri che lo inseguivano, per gettarsi, se fosse necessario, nel fitto dei giunchi, un cavallo valeva evidentemente meglio d’una carrozza. Più tardi, al di là di Tomsk od anche di Krasnoiarsk in qualche centro importante della Siberia occidentale, Michele Strogoff vedrebbe che cosa convenisse fare.

Quanto al cavallo, non venne a Michele Strogoff neppure in mente di barattarlo con un altro: era oramai avvezzo a quel bravo animale, e sapeva che partito poteva ricavarne. Comperandolo ad Omsk, era stato fortunato, e conducendolo in casa di quel mastro di posta il generoso mujik gli aveva fatto in vero un gran servizio. D’altra parte se Michele Strogoff si era già affezionato al suo cavallo, questo pareva avvezzarsi a poco a poco alle fatiche del viaggio, e pur di lasciargli alcune ore di riposo, il suo cavaliere poteva sperare ch’esso andrebbe fino al di là delle provincie invase. [p. 83 modifica]

Dunque, nella sera e nella notte dal 2 al 3 agosto, Michele Strogoff se ne stette confinato nel suo albergo, all’entrata della città, albergo poco frequentato, al riparo dagli importuni e dai curiosi.

Affranto dalla fatica si coricò dopo d’aver badato che al suo cavallo non mancasse nulla; ma non potè dormire che ad intervalli. Troppe ricordanze, troppe inquietudini lo assediavano ad un tempo. L’immagine della sua vecchia madre, quella della giovane ed intrepida sua compagna, lasciate dietro di sè senza protezione, s’alternavano nel suo spirito, si confondevano insieme nel medesimo pensiero.

Poi ripensava alla missione che aveva giurato di compiere; ciò che vedeva dopo la sua partenza da Mosca gliene mostrava sempre più l’importanza. Il movimento era gravissimo, e la complicità di Ogareff lo rendeva più formidabile. E quando i suoi sguardi cadevano sulla lettera col sigillo imperiale, questa lettera che senza dubbio conteneva il rimedio a tanti mali, la salvezza di tutto quel paese tormentato dalla guerra, Michele Strogoff sentiva dentro di sè come un selvaggio desiderio di slanciarsi attraverso la steppa, di valicare a volo d’uccello la distanza che lo separava da Irkutsk, di essere aquila per innalzarsi sopra gli ostacoli, di essere uragano per attraversar l’aria colla rapidità di cento verste all’ora, di arrivare infine al cospetto del gran duca e di gridargli: «Altezza, da parte di Sua Maestà lo czar!»

Il domattina, alle 6, Michele Strogoff ripartì coll’intenzione di percorrere in quella giornata le ottanta verste (85 chilometri) che separano Kams dal casale di Ubinsk. Al di là d’un raggio di venti [p. 84 modifica]verste ritrovò la pantanosa Baraba, non asciugata più da nessun incanalamento delle acque ed il cui suolo era sovente annegato sotto un piede d’acqua. La via era allora difficile a riconoscere, ma grazie alla sua estrema prudenza, quella traversata non fu segnalata da alcun accidente.

Michele Strogoff, giunto ad Ubinsk, lasciò che il suo cavallo riposasse tutta notte, perchè voleva, nella giornata successiva, percorrere senza fermarsi le cento verste che separano Ubinsk ed Ikulskoe. Partì egli all’alba, ma disgraziatamente in questa parte il suolo della Baraba fu sempre più detestabile.

Infatti fra Ubinsk e Kamakova, le pioggie, abbondantissime alcune settimane prima, si erano conservate in quella stretta depressione come in un bacino impermeabile.

Non vi era più soluzione di continuità nella interminabile rete di mari, di stagni e di laghi. Uno di questi laghi abbastanza importante da aver meritato di essere ammesso alla nomenclatura geografica, il Tchang, chinese pel suo nome, dovette essere costeggiato per più di venti verste con estrema difficoltà. Da ciò qualche ritardo che tutta l’impazienza di Michele Strogoff non poteva impedire. Egli aveva d’altra parte fatto bene non pigliando una carrozza a Kamsk, perchè il suo cavallo passò là dove alcun veicolo non avrebbe potuto passare.

La sera, alle 9, Michele Strogoff, giunto ad Ikulskoe, vi si arrestò tutta notte. In quel borgo perduto della Baraba mancavano assolutamente le notizie della guerra. Per la sua natura medesima questa porzione della provincia, posta nella biforcatura che formavano le due colonne tartare, [p. 85 modifica]dirigendosi l’una ad Omsk, l’altra a Tomsk, era sfuggita finora agli orrori dell’invasione.

Ma le difficoltà naturali dovevano finalmente scemare, perchè se non trovava alcun ritardo, Michele Strogoff doveva, fin dal domani, aver lasciata la Baraba, e ritrovare una via praticabile, appena avesse valicate le 125 verste (133 chilometri) che ancora lo separavano da Kolyvan.

Giunto a quel borgo importante, egli non sarebbe più che ad eguale distanza da Tomsk. Piglierebbe allora consiglio dalle circostanze, ed assai probabilmente si deciderebbe a fare il giro di questa città che, se le notizie erano esatte, era occupata da Féofar-Kan.

Ma se codesti borghi, come a dire Ikulskoe e Karguinsk, che egli passò il domani, erano relativamente tranquilli in grazia della loro situazione nella Baraba, dove difficilmente le colonne tartare avrebbero manovrato, non era egli a credere che sulle rive più ricche dell’Obi, Michele Strogoff, più non avendo a temere gli ostacoli fisici, avesse invece molto a temere dell’uomo? Ciò era verisimile. Pure, se fosse necessario, egli non esiterebbe a gettarsi fuor della via d’Irkutsk. Fuggendo allora attraverso la steppa, egli rischierebbe evidentemente di trovarsi senza mezzi. Colà infatti non più via tracciata, non più città, nè villaggi. Solo qualche fattoria isolata o semplici capanne di povera gente, ospitali senza dubbio, ma prive forse persino del necessario. Ad ogni modo non era momento d’esitazioni.

Finalmente, verso le 3 e mezzo pomeridiane, dopo d’aver oltrepassato la stazione di Kargatsk, Michele Strogoff lasciava gli ultimi avvallamenti dalla Baraba, ed il suolo duro e secco del [p. 86 modifica]territorio siberiano suonava un’altra volta sotto i piedi del suo cavallo.

Egli aveva lasciato Mosca il 15 luglio. Dunque, quel giorno, 5 agosto, comprendendo più di settant’ore perdute sulle sponde dell’Irtyche, erano trascorsi vent’un giorni dalla sua partenza.

Ancora 1500 verste lo separavano da Irkutsk.