Michele Strogoff/Parte Seconda/Capitolo I. Un campo tartaro

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Parte Seconda - Capitolo I. Un campo tartaro

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Jules Verne - Michele Strogoff (1876)
Traduzione dal francese di Anonimo
Parte Seconda - Capitolo I. Un campo tartaro
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CAPITOLO PRIMO.

un campo tartaro.


A una giornata di cammino da Kolyvan, poche verste oltre il borgo di Diachinsk; si stende una vasta pianura dominata da alcuni grandi alberi, segnatamente pini e cedri.

Questa parte della steppa è solidamente occupata, nella stagione calda, da pastori siberiani, e basta al nutrimento dei loro greggi numerosi. Ma a quel tempo vi si avrebbe cercato invano uno solo di questi abitanti nomadi. Non già che la pianura fosse deserta, chè al contrario avea aspetto animatissimo.

Colà infatti eran rizzate le tende tartare; colà si accampava Féofar-Kan, il truce Emiro di Bukara; ed è là che il domani, 7 agosto, furono condotti i prigionieri fatti a Kolyvan, dopo la distruzione del piccolo corpo russo. Di questi duemila uomini, che si erano cacciati fra le colonne nemiche, appoggiandosi a un tempo sopra Omsk e sopra Tomsk, più non rimanevano che poche centinaja di soldati. [p. 6 modifica]

Gli avvenimenti dunque volgevano a male, e il governo imperiale sembrava in pericolo al di là delle frontiere dell’Ural, almeno per ora, poichè i Russi dovevano, presto o tardi, respingere quelle orde d’invasori. Frattanto però l’invasione era giunta fino al centro della Siberia, ed attraverso il paese sollevato doveva propagarsi sia nelle provincie dell’ovest, sia in quelle dell’est. Irkutsk era ora separata assolutamente per mancanza di comunicazioni. Se le truppe dell’Amur e della provincia di Irkutsk non giungevano in tempo ad occuparla, questa capitale della Russia asiatica, ridotta a forze insufficienti, cadrebbe nelle mani dei Tartari, e innanzi che avesse potuto essere ripresa, il gran duca, fratello dell’imperatore, doveva essere alla mercè d’Ivan Ogareff.

Che ne era di Michele Strogoff? Piegava egli finalmente sotto il peso di tanti contrasti? Si dava egli per vinto da quella mala sorte che, dopo l’avventura d’Ichim, aveva sempre infierito vieppiù? Considerava egli la partita come perduta, la sua missione come fallita, il suo mandato come impossibile da compiere?

Michele Strogoff era uno di quegli uomini che s’arrestano il giorno in cui cadon morti. Ora egli viveva: non era neppur stato ferito; aveva sempre indosso la lettera imperiale; il suo incognito era stato rispettato. Senza dubbio egli era fra quei prigionieri che i Tartari trascinavano come un greggie vile; ma accostandosi a Tomsk, egli s’accostava pure ad Irkutsk, e infin dei conti precedeva sempre Ivan Ogareff.

— Arriverò! pensava egli.

E, dopo la faccenda di Kolyvan, tutta la sua vita si concentrò in quest’unico pensiero: ridiventar libero. [p. 7 modifica]

Come fuggire ai soldati dell’Emiro? Venuto il momento, vedrebbe.

Il campo di Féofar presentava uno spettacolo magnifico: numerose tende, fatte di pelli di feltro o di stoffe di seta, luccicavano ai raggi del sole. Gli alti pennacchi, eretti sulle loro punte coniche, si dondolavano in mezzo a banderuole ed a stendardi multicolori. Le più ricche di queste tende appartenevano ai seid ed ai kodjas, che sono i primi personaggi del kanato. Una bandiera speciale, ornata d’una coda di cavallo, la cui asta si slanciava da un fascio di bastoni rossi e bianchi, artisticamente intrecciati, indicava l’alto grado di questi capi tartari; poi all’infinito sorgevano nella pianura alcune migliaja di quelle tende turcomanne chiamate «karaoy,» e che erano state trasportate a schiena di cammello.

Il campo conteneva almeno centocinquantamila soldati tra fanti e cavalieri, adunati sotto il nome di Alamani. Tra essi, e come i tipi principali del Turkestan, si notavano prima di tutto i Tadjik, dai tratti irregolari, dalla pelle bianca, dall’alta statura, dagli occhi e dai capelli neri, che formavano il grosso dell’armata tartara e di cui i kanati di Hokand e di Kunduz avevano fornito un contingente quasi eguale a quello di Bukara. Ora questi Tadjik si mescevano con altri campioni di quelle diverse razze che abitano il Turkestan o i paesi con essi confinanti. Vi erano Usbechi, piccini di statura, dalla barba rossa, simili a quelli che s’erano dati ad inseguire Michele Strogoff. Vi erano Kirghizi, dalla faccia schiacciata come quella dei Kalmuki, vestiti con le cotte di maglia, portanti lancie, archi e freccie di fabbricazione europea, oppure la sciabola, il fucile a miccia e [p. 8 modifica]lo «tschakan» piccola accetta a manico corto che non fa che ferite mortali. Vi erano Mongoli, di mezzana statura, dai capelli neri raccolti in una treccia che pendeva loro sul dorso, dalla faccia tonda, dalla tinta arsiccia, gli occhi infossati e vivaci, la barba rada, le vestimenta di nankin azzurro guernite di peluria nera, i cinturini di cuojo a fibbia d’argento, gli stivaloni ricamati in modo appariscente, i berretti di seta foderati di pelliccia con tre nastri svolazzanti indietro. Finalmente vi si vedevano pure Afgani, dalla pelle fuligginosa, Arabi, aventi il tipo primitivo delle belle razze semitiche, e Turcomanni, con quegli occhi che pajono privi di palpebre: tutti arruolati sotto la bandiera dell’Emiro, bandiera di incendiarî e di devastatori.

Accanto a questi soldati liberi si contava pure un certo numero di soldati schiavi, segnatamente Persiani, comandati da uffiziali della medesima origine; e non erano costoro certamente i meno stimati dell’armata di Féofar-Kan.

Si aggiungano a questa nomenclatura gli Ebrei che servono come domestici, colla vesta cinta da una corda, in capo invece del turbante, che non possono portare, certi piccoli berretti di panno oscuro. Si mescolino a questi gruppi centinaja di «kalender,» specie di religiosi mendicanti, dalle vestimenta a brandelli, coperti da una pelle di leopardo, e si avrà un’idea pressochè completa di queste enormi agglomerazioni di tribù diverse comprese sotto la denominazione generale d’armate tartare.

Cinquantamila di questi soldati erano a cavallo, e i cavalli non erano men variati degli uomini.

Framezzo a questi animali, attaccati a diecine [p. 9 modifica]a due corde parallelamente tese l’una all’altra, colla coda annodata e la groppa coperta da una rete di seta nera, si vedevano i Turcomanni, dalle gambe sottili, lunghi di corpo, dal pelo lucente, dall’incollatura nobile; gli usbechi, che sono animali robusti; i kokandiani, che portano col loro cavaliere due tende e tutta una batteria di cucina; i kirghizi dal mantello chiaro, venuti dalle sponde del fiume Emba, dove vengono pigliati coll’«arcan,» specie di laccio dei Tartari, e molti altri prodotti di razze incrociate che sono di qualità inferiore.

Gli animali da soma si contavano a migliaja. Erano cammelli di piccola statura, ma ben fatti, dal pelo lungo, dalla criniera folta ricadente sul collo, animali docili e più facili ad aggiogare del dromedario; nars ad una gobba, dal pelame color rosso fuoco, dai peli inanellati; asini resistenti alla fatica e la cui carne, molto stimata, forma in parte il nutrimento dei Tartari.

Su tutto questo insieme d’uomini ed animali, su questa immensa agglomerazione di tende, i cedri ed i pini, disposti a larghi gruppi, gettavano un’ombra fresca, rotta qua e là da qualche raggio solare. Nulla di più pittoresco di questo quadro, nel quale il colorista più ardente avrebbe consumati tutti i colori della sua tavolozza.

Quando i prigionieri fatti a Kolyvan giunsero dinanzi alle tende di Féofar-Kan e dei gran dignitari del kanato, tutti i tamburi batterono al campo, suonarono le trombe. A questi rumori già formidabili s’aggiunsero schioppettate stridenti, e lo sparo più grave dei cannoni da quattro e da sei, che formavano l’artiglieria dell’Emiro.

L’accampamento di Féofar era puramente [p. 10 modifica]militare. Ciò che si potrebbe chiamare la sua casa civile, il suo harem e quello dei suoi alleati erano a Tomsk, oramai nelle mani dei Tartari.

Levato il campo, Tomsk doveva diventare la residenza dell’Emiro fino al momento in cui egli l’avesse ad abbandonare per andarsene alla capitale della Siberia orientale.

La tenda di Féofar dominava le tende vicine. Fatta con una splendida stoffa di seta, rilevata da cordoni a frangie d’oro, sormontata da nappe che il vento agitava come ventagli, occupava il mezzo d’una vasta radura chiusa da una cortina di magnifiche betulle e di pini giganteschi. Dinanzi a questa tenda, sopra una tavola laccata ed incrostata di pietre preziose, s’apriva il libro sacro del Corano, le cui pagine erano foglioline d’oro sottilmente incise. Al disopra sventolava la bandiera tartara quartata colle armi dell’Emiro.

Intorno alla radura sorgevano in semicerchio le tende dei gran funzionari di Bukara. Colà risiedevano il capo scuderia, che ha il diritto di seguire a cavallo l’Emiro fino nel cortile del suo palazzo, il gran falconiere, l’«uschbegui,» portatore del sigillo reale, il «toptschi-baschi» gran mastro dell’artiglieria, il «kodja.» capo del consiglio, che riceve il bacio del principe e può presentarsi innanzi a lui colla cintura snodata, lo «scheikhul-islam,» capo degli Ulema, rappresentante dei sacerdoti, il «cazi-askev, il quale in assenza dell’Emiro giudica ogni controversia sorta fra i militari, e finalmente il capo degli astrologhi, il cui ufficio principale è d’interrogare le stelle ogni volta che il Kan pensa a muoversi.

L’Emiro, al momento in cui i prigionieri furono condotti al campo, era nella sua tenda. Egli [p. 11 modifica]non si mostrò, e senza dubbio fu fortuna, poichè un suo gesto avrebbe potuto essere il segnale di qualche sanguinosa rappresaglia. Ma egli si ritirò in quell’isolamento che forma in parte la maestà dei re orientali. Chi non si mostra, è ammirato e sopratutto temuto. Quanto ai prigionieri, essi dovevano essere chiusi in qualche recinto dove, maltrattati, nutriti appena, esposti a tutte le intemperie del clima, attenderebbero il beneplacito di Féofar.

Di tutti, il più docile, se non il più paziente, era certamente Michele Strogoff. Egli si lasciava guidare, perchè lo si conduceva là dove egli voleva andare, e con una sicurezza che, libero, non avrebbe potuto trovare su quella strada da Kolyvan a Tomsk. Fuggire prima d’esser giunto in questa città era esporsi a ricadere nelle mani degli esploratori che battevano la steppa. La linea più orientale occupata allora dalle colonne tartare non si trovava situata al di là dell’82° meridiano che attraversa Tomsk. Passato dunque questo meridiano, Michele Strogoff doveva contare d’essere fuor delle zone nemiche, di poter attraversare l’Yenisei senza pericolo, e giungere a Krasnoiarsk innanzi che Féofar-Kan avesse invaso la provincia.

— Giunto che sia a Tomsk, diceva egli a sè stesso per reprimere l’impazienza di cui non era sempre padrone, in pochi minuti sarò al di là degli avamposti, e dodici ore guadagnate sopra Féofar, dodici sopra Ogareff, mi basteranno per precederli ad Irkutsk!

Invero, quello che Michele Strogoff temeva sopra ogni altra cosa era e doveva essere la presenza d’Ivan Ogareff al campo tartaro. Oltre del pericolo d’essere riconosciuto, sentiva egli, per [p. 12 modifica]una specie d’istinto, che su quel traditore appunto importava prendere un vantaggio. Comprendeva pure che la riunione delle truppe d’Ivan Ogareff a quelle di Féofar doveva completare le forze dell’armata invadente, e che una volta radunata quest’armata doveva muovere verso la capitale della Siberia orientale. Tutte le sue paure erano dunque da quella parte, e ad ogni istante ascoltava se mai qualche suono di tromba annunziasse l’arrivo del luogotenente dell’Emiro.

S’aggiungeva a questo pensiero il ricordo di sua madre, quello di Nadia, l’una trattenuta ad Omsk, rapita l’altra sulle barche dell’Irtyche e senza dubbio prigioniera al pari di Marfa Strogoff! Nulla egli poteva fare per esse! E le rivedrebbe mai? A questo quesito, che non osava sciogliere, gli si stringeva il cuore.

Insieme con Michele Strogoff e tanti altri prigionieri, Harry Blount e Alcide Jolivet erano stati condotti al campo tartaro; il loro antico compagno di viaggio, preso con essi al posto telegrafico, li sapeva chiusi al par di lui nel recinto sorvegliato da molte sentinelle, ma non aveva cercato menomamente di avvicinarsi ad esse. Poco gl’importava, almeno in questo momento, quello che essi potessero pensare di lui dopo la faccenda del cambio dei cavalli d’Ichim. D’altra parte ei voleva esser solo per agire solo all’occorrenza; perciò se n’era rimasto in disparte.

Alcide Jolivet, dopo il momento in cui il suo confratello era caduto al suo fianco, non gli aveva risparmiato le proprie cure. Durante il tragitto da Kolivan al campo, vale a dire per molte ore di cammino, Harry Blount, appoggiato al braccio del suo rivale, aveva potuto seguire il convoglio [p. 13 modifica]dei prigionieri. Egli volle a bella prima far valere la sua qualità di suddito inglese, ma questo non gli servì menomamente al cospetto di barbari che non rispondevano che a colpi di lancia o di sciabola. Il corrispondente del Daily-Telegraph dovette dunque subire la sorte comune, salvo a reclamare più tardi, ed ottenere soddisfazione d’un trattamento simile. Ma il tragitto fu pure penosissimo per lui, perchè la sua ferita lo faceva soffrire, e forse, se non era l’ajuto d’Alcide Jolivet, egli non avrebbe potuto giungere al campo tartaro.

Alcide Jolivet, che la sua filosofia pratica non abbandonava mai, aveva fisicamente e moralmente riconfortato il suo confratello con quanti mezzi erano in poter suo. Prima sua cura, quand’egli si vide chiuso nel recinto, fu di visitare la ferita d’Harry Blount. Riuscì a cavargli destramente l’abito, e vide che la sua spalla era stata soltanto sfiorata da una scheggia di mitraglia.

— Non è nulla, diss’egli. Una semplice graffiatura. Dopo due o tre fasciature, mio caro confratello non si vedrà nemmeno.

— Ma le fasciature? domandò Harry.

— Le farò io stesso.

— Siete dunque un po’ medico?

— Tutti i Francesi sono un po’ medici.

E ciò detto, Alcide Jolivet, lacerando la sua pezzuola, fece delle filaccie con uno dei pezzi, delle compresse cogli altri; prese dell’acqua in un pozzo scavato in mezzo al recinto, lavò la ferita, che fortunatamente non era grave, ed applicò con molta abilità le filaccie e le pezzuole bagnate sulla spalla d’Harry Blount.

— Io vi coro coll’acqua, diss’egli. Questo liquido è ancora il sedativo più efficace che si conosca [p. 14 modifica]per la cura delle ferite, ed oramai il più adoperato. I medici hanno impiegato seimila anni a scoprir questo. Sì, seimila anni tondi!

— Vi ringrazio, signor Jolivet, rispose Harry Blount sdrajandosi sopra un letto di foglie secche, che il compagno gli preparò all’ombra d’una betulia.

— Oibò! è una bazzecola, fareste altrettanto al mio posto.

— Non so, rispose il ferito un po’ ingenuamente.

— Burlone che siete! Tutti gl’Inglesi sono generosi!

— Sicuro, ma i Francesi?

— Ebbene, i Francesi sono buoni, sono anche stupidi, se volete, ma in compenso sono Francesi! Non parliamo altro di questo, ed anzi, se credete a me, non ne parliamo più affatto. Avete assoluto bisogno di riposo.

Ma Harry Blount non aveva alcuna voglia di tacere. Se il ferito doveva per prudenza pensare al riposo, il corrispondente del Daily-Telegraph non era uomo da dimenticare il suo mestiere.

— Signor Jolivet, diss’egli, credete voi che i nostri ultimi dispacci abbiano potuto passare la frontiera russa?

— E perchè no? rispose Alcide Jolivet. Vi assicuro io che a quest’ora la mia fortunata cugina è informata del fatto d’armi di Kolyvan.

— Quanti esemplari fa dei suoi dispacci vostra cugina? domandò Harry Blount, il quale per la prima volta faceva questa domanda diretta al suo confratello.

— Ma! rispose ridendo Alcide Jolivet. Mia cugina è una persona molto discreta, e non le piace [p. 15 modifica]che si parli di lei. Sarebbe disperata se sapesse di aver turbato il vostro sonno, di cui avete tanto bisogno.

— Non voglio dormire, rispose l’Inglese. Che deve pensare vostra cugina delle faccende della Russia?

— Che pajono avviate male per ora. Ma oibò! il governo moscovita è potente; esso non può inquietarsi davvero d’una invasione di barbari, e la Siberia non gli sfuggirà.

— Troppa ambizione ha perduto i più grandi imperi! rispose Harry Blount, che non era esente da una certa gelosia inglese per le pretese russe nell’Asia centrale.

— Non parliamo di politica! esclamò Alcide Jolivet. È proibito dalla medicina! Niente di peggio per le ferite alla spalla!... ammenochè non lo facciate per addormentarvi!

— Parliamo allora di quello che ci rimane a fare, soggiunse Harry Blount. Signor Jolivet, io non ho menomamente intenzione di star prigioniero di questi Tartari.

— E nemmen io, per bacco!

— Ce la svigneremo alla prima occasione?

— Sì, se non v’è altro mezzo di ricuperare la nostra libertà.

— Ne conoscete un altro, voi? domandò Harry Blount guardando il suo compagno.

— Certamente! Non siamo belligeranti noi; siamo neutrali, e reclameremo!

— Presso quell’animale di Féofar-Kan?

— No, perchè egli non comprenderebbe, rispose Alcide Jolivet, ma presso il suo luogotenente Ivan Ogareff.

— Un furfante! [p. 16 modifica]

— Senza dubbio, ma un furfante russo. Egli sa che non c’è da scherzare col diritto delle genti, e non ha verun interesse a trattenerci, tutt’altro. Solamente non mi garba molto aver da chiedere qualche cosa a quel figuro.

— Ma quel figuro non è al campo, o almeno non l’ho veduto, disse Alcide Jolivet.

— Ci verrà infallibilmente. Bisogna ch’egli raggiunga l’Emiro. La Siberia è tagliata in due, oramai, e certamente l’armata di Féofar non aspetta più che lui per muovere contro ad Irkutsk.

— E quando saremo liberi, che cosa faremo?

— Quando saremo liberi faremo la nostra campagna, e seguiremo i Tartari, fino a che gli avvenimenti ci permettano di passare nel campo opposto. Non bisogna abbandonare la partita, diancine! L’abbiamo appena incominciata. Voi, confratello, avete avuto la fortuna d’essere ferito al servizio del Daily-Telegraph, mentre io non mi sono buscato nulla al servizio di mia cugina. — Buono, mormorò Alcide Jolivet, eccolo che si addormenta! Poche ore di sonno e qualche compressa d’acqua fresca, non ci vuole di più per mettere in piedi un Inglese. Gl’Inglesi sono fabbricati d’acciajo!

E mentre Harry Blount riposava, Alcide Jolivet vegliò accanto a lui, dopo aver cavato di tasca un taccuino, che coprì di note, deliberato, del resto, a spartirle col suo confratello, per la maggior soddisfazione dei lettori del Daily-Telegraph. Gli avvenimenti gli avevano stretti l’uno all’altro. Oramai non erano più gelosi.

Così dunque, quello che Michele Strogoff temeva più d’ogni altro era per l’appunto, l’oggetto dei più vivi desiderî dei due giornalisti. [p. 17 modifica]L’arrivo di Ivan Ogareff poteva evidentemente giovare a costoro, perchè una volta riconosciuta la loro qualità di corrispondenti, inglese e francese, niente di più probabile che fossero messi in libertà. Il luogotenente dell’Emiro farebbe intendere la ragione a Féofar, il quale non avrebbe mancato di trattar come semplici spie i disgraziati giornalisti. L'interesse di Harry Blount e di Alcide Jolivet era dunque contrario all’interesse di Michele Strogoff. Costui aveva ben compreso la cosa, e ci vide una nuova ragione da aggiungere a tante altre, d’evitare ogni ravvicinamento co’ suoi antichi compagni di viaggio. Fece dunque in modo da non esser veduto da essi.

Passarono quattro giorni, durante i quali lo stato delle cose non fu menomamente modificato. I prigionieri non intesero parlare della levata del campo tartaro. Erano sorvegliati severamente, e sarebbe loro stato impossibile attraversare il cordone di fanti e di cavalieri che facevano la guardia notte e giorno. Quanto al cibo che era loro distribuito bastava appena a sostentarli. Due volte nelle ventiquattro ore veniva loro buttato un pezzo d’interiora di capra arrostito sui carboni, o qualche boccone di quel formaggio chiamato krut fabbricato col latte acre di pecora, e che, intriso col latte di giumenta, forma il cibo kirghizo più comunemente chiamato kumyss. Conviene aggiungere che il tempo si fece orribile. Avvennero gran perturbazioni atmosferiche che produssero burrasche miste di pioggia. I disgraziati, privi di riparo, dovettero sopportare quelle intemperie malsane, e nessun sollievo fu portato alle loro miserie. Alcuni feriti, donne e fanciulli, [p. 18 modifica]morirono, e i prigionieri medesimi dovettero seppellire i cadaveri, a cui i loro guardiani non volevano neppur dar sepoltura.

Durante queste dure prove, Alcide Jolivet e Michele Strogoff si moltiplicarono, ciascuno dal canto suo. Essi resero tutti i servigi che poterono rendere. Meno travagliati di tanti altri, validi e robusti, essi dovevano resistere meglio, e coi consigli e colle cure poterono tornare utili a coloro che soffrivano e si disperavano.

Questo stato di cose doveva durare? Féofar-Kan, soddisfatto de’ suoi primi trionfi, voleva egli dunque aspettar qualche tempo prima di muovere contro Irkutsk? Si poteva temerlo, ma così non fu. L’avvenimento tanto desiderato da Alcide Jolivet e da Harry Blount, tanto temuto da Michele Strogoff, seguì nel mattino del 12 agosto.

In quel giorno suonarono le trombe, batterono i tamburi, echeggiarono gli spari dei moschetti. Un enorme nugolo di polvere si svolgeva sopra la strada di Kolyvan.

Ivan Ogareff seguíto da due migliaia d’uomini, faceva il suo ingresso nel campo tartaro.