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Mitologia del secolo XIX/XVII. Salmoneo

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XVI. Cerbero XVIII. I Centauri
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XVII. SALMONEO.

Era Salmoneo figliuolo di Eolo e regnò sopra l’Elide. Ciò che gli acquistò fama per tutti i secoli si fu la pazza arroganza con cui studiossi d’imitare Giove fulminatore. Si foggiò un carro sopra il quale scorreva il paese, e fattosi circondare da non so che apparenze maravigliose, studiavasi d’impaurire le genti ed averne a questo modo gli omaggi stessi che solevansi tributare agl’Iddii. A due riflessioni mi conduce questa mitologica fola. In primo luogo, vedi, dissi fra me, che a volere essere scambiato per Giove nien[p. 107 modifica]te più gli parve opportuno che impugnarne la folgore. Ma che? Non era Giove che, secondo il giudizio delle genti d’allora, dispensava anche i beni che fanno lieta la vita mortale? Ora perchè non imitarlo in questo pio ministero anzichè nel lanciar delle folgori? Girando gli occhi della mente ai Salmonei del nostro tempo, giacchè ogni tempo ne ha di suoi proprii, mi avvidi che seguono il costume di quell’antico. Pigliano dalle grandezze cui presumono d’imitare, no il bene, ma il male. La magnificaggine sua guarda in cagnesco chi gli passa da lato; parla interrotto e come a scosse di singulto; delle tre cose di cui l’interroghi si degna rispondere a mezza. Ora che fa madonna scimia? Affetta la ciera sbirresca, le parole mozze e spicciolate, il fare distratto della magnificaggine sopraddetta. Ma, e il tenere le fatte promesse, l’usare misura nel discorso, il non immischiarsi ne’ particolari di checchessia, perchè madonna scimia li lascia da parte? Sempre folgori, e non mai rugiade? Così è, al Giove posticcio è necessario più che altro il cattivo tempo.

In questa parte, a dir vero, non seppi far a meno di condannare l’antico re d’Elide, e avere un po’ di gusto di quella saetta che gli fece assaggiare il corrucciato monarca de’ cieli. Allo incontro la seconda riflessione, che a prima giunta pareva dovesse farmi più sempre spregevole il folle millantatore, gli guadagnò la mia pietà. Come? dissi, sempre fra me; non s’avvide il ba[p. 108 modifica]lordo che a fabbricare le folgori non erano punto bastanti le fucine di questo mondo? Questa è pure imbecillità! Ma pensandoci meglio soggiunsi: il pover’uomo! egli deve avere discorso del seguente tenore: Che cosa sono le folgori? Una maledetta materia che scoppia con alto rimbombo, e con guizzo luminoso, mandando in perdizione qualunque sia cosa che le contrasti il passaggio. Ora, che non posso inventare ancor io qualche altra consimile maledizione? Ed ecco il bravo uomo che si mette senza più al lavoro delle saette.

Gli altri Salmonei fanno tutti presso a poco lo stesso. Ecco Salmoneo poeta. Che cosa è finalmente una tragedia? Un fatto preso dalla storia, e raffazzonato per modo che se ne possono trinciare cinque atti. Anzichè narrare da sè, introdurre le persone stesse ch’ebbero parte alla azione e far che favellino tra loro. Quanto ai versi, sono altro poi che accozzamento di parole, con questo solamente che gli accenti caschino piuttosto quivi che quivi, e che ad ogni undici sillabe sia il termine di una parola? Qua dunque penna e calamaio e scriviamo tragedie. Imbizzarrisce il severo maestro all’udire questo discorso; ma chi domandasse al maestro: che è dunque la Mirra? Si metta il valent’uomo una mano sul petto e risponda. Poco più saprà aggiugnere al discorso di Salmoneo, se non è la confessione che la sterminata differenza che ci passa tra le tragedie bene ordinate in ogni loro [p. 109 modifica]membro, e quelle che altro non sono salvo che aborti, si sente profondamente dall’anima, ma non può essere definita, presso a poco come la intrinseca forza delle saette. Compassionisi dunque il povero pazzo, e veggasi che tanto è sapere tutta comprendere la malagevolezza che ci ha a bene comporne una tragedia, quanto avere capacità di comporla.

Ora bada a Salmoneo mercatante. Un poco di vento che piacque spirargli a madonna Fortuna è bastato a gonfiargli il cervello miseramente, per cui cominciò a sognare guadagni e ricchezze fuor di misura. Ho veduto, dic’egli, il tale o tal altro, di sciancato pitocco ch’egli era, tramutarsi in pochi anni in cima di banchiere. Mano all’opera, e si tenti. Il malaccorto mette nei suoi computi il denaro, l’ingegno e l’alacrità del lavoro, e si crede con ciò avere in pronto quanto occorre alla composizione della bramata saetta. Per verità agli occhi suoi non altro apparisce anche nell’impresa degli altri mercadanti cui prende ad emulare. Ma, e la fortuna? È questo il più fino ingrediente, e chi non ne ha in buon dato spera in vano fabbricarsi fulmini veri, atti a distruggere l’opprimente bisogno. Possono mettersi a limbicco le speculazioni che meglio fruttarono a’ loro imprenditori, se ne trarranno gli elementi del denaro, dell’ingegno e dell’alacrità del lavoro, ma la fortuna è cosa impalpabile, senza peso e misura. Che dunque? È da perdonare al povero Salmoneo mercatante [p. 110 modifica]se tenta di arricchire, e nulla più che compiangerlo se gli sfallisce il disegno.

Ma c’è da considerare più ancora di quanto fin qui abbiamo detto. Ci sono anche i Salmonei della virtù: come? dirà taluno, è cosa la virtù che si maneggi, e che dia quindi speranza di poter essere fabbricata? — Ecco qui. Non basta alcune volte all’insaziabile cupidigia dell’uomo la considerazione che si procaccia tra’ suoi fratelli co’ beni della fortuna, vuole anche guadagnarsi quella specie di stima che viene accordata all’altezza dell’ingegno, o alla gentilezza del cuore. Nel primo caso abbiamo il Salmoneo scrittore, di cui s’è detto, che fulmina finte tragedie, finte orazioni, finti trattati; nel secondo il Salmoneo virtuoso. Che fa costui? Si mette a decomporre la virtù. Decomporre la virtù? Vedi pazza fatica! Quasi non fosse da un menomo che, aggiunto o scemato inopportunamente, che la virtù può diventare quel vizio cui sempre è vicina. Si mette quindi, senza più, a praticarla, e scaglia le sue folgori d’onestà portentosa fra l’attonita moltitudine. Ma che? Tutto è chiarore di lampo e rimbombo di tuono. Gli occhi ne rimangono abbacinati, intronate le orecchie: ma il vero effetto della virtù non si vede. Il povero Salmoneo si è contentato di un poco di corteccia superficiale, poichè non gli si concedeva di passare più oltre, e si fece ipocrita pensando di riuscire virtuoso. Le crudeli battaglie, la volontà pertinace, i solenni sagrifizii [p. 111 modifica]che costano le nobili azioni, non li ha ponderati il Salmoneo di cui vi parlo, quindi il fulmine da esso lanciato è fulmine da teatro, che cava al più al più qualche dozzina di battimani.

Volendo allargare i confini a questa mia chiacchiera, potrei distenderla a tutte le condizioni della vita. Tutti, dal più al meno, siamo Salmonei; tutti ci mettiamo a fabbricare saette per farci porgere incensi da’ nostri inferiori. Questa è una colpa da cui è assai malagevole il tenersi netti. Usiamo dunque tutti di vicendevole moderazione ne’ nostri giudizii: pensiamo che parte de’ nostri falliti divisamenti procede da povertà d’intelletto, povertà inevitabile alla nostra natura. Sotto certi rispetti, tanto è sapere che cosa sia un lavoro d’arte eccellente quanto essere artista eccellente; che cosa si richieda a prosperare un traffico, quanto avere domestica la fortuna; che cosa sia intrinsecamente la virtù, quanto essere virtuoso; e così del resto.