Monarchia/Libro II/Capitolo VII

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Libro II - Capitolo VII

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Dante Alighieri - Monarchia (1312)
Traduzione dal latino di Marsilio Ficino (1468)
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Che quello che per natura è ordinato, per ragione s’osserva; et come el romano popolo da la natura fu ordinato a inperare.

Q[u]ello che per natura è hordinato, pe ·rag[i]one s’osserva; perché la natura non mancha nel provedere, e nonn–è meno che la providenza dello huomo; perché s’ella fussi meno, l’effetto avanzerebbe la chag[i]one in bontà; che non può essere. Ma noi veggiamo che ne’ colegi non solo l’ordine de’ collegi intra loro è considerato dallo ordinatore, ma etiandio la fachultà a esercitare gli hufici: e questo è considerare el termine della ragione nel collegio, hovero nello ordine; e non si vede che ·lla rag[i]one si manifesti oltre al potere. Adunque la natura nel suo hordine non è da meno che questa providenza humana. Per questo è manifesto che ·lla natura hordina le cose avendo rispetto alla sua facultà; el quale rispetto è el fondamento della ragione nelle cose posto dalla natura. Di qui seguita che l’ordine naturale nelle cose non si può sanza la ragione hoservare, conciosiaché inseparabilemente el fondamento della ragione s’acchosti all’ordine della natura: sicchéè necessario di ragione oservare quello che ordinò la natura. El romano popolo dalla natura fu ordinato a inperare. Et questo così si dichiara: come colui mancherebbe dalla perfetione dell’arte che attendessi solo alla forma finale e non si curassi della materia per la quale a essa finale forma si perviene, così la natura mancherebbe se ·ssolo atendessi alla forma huniversale della divina similitudine nello huniverso, et la materia disprezassi; ma la natura non mancha inn–operatione alcuna, essendo ella hopera della intelligenza divina: adunque la natura atende a tutte quelle cose per le quali a l’ultimo fine della intentione sua pervengha. Adunque essendo el fine della rag[i]one humana un certo mezo necessario al fine huniversale della natura, è necessario che la natura a questo atenda. E però Aristotele nel secondo della Fisicha pruova che ·lla natura l’opere sue al fine diriza. E non potendo la natura per uno huomo pervenire a questo fine, perché sono molte hoperationi a esso necessarie, che richieghono molti operatori, è necessario che ·lla natura produca molti huomini a produrre l’operationi diverse: et a questo molto aiuta, oltre alla infruenza de’ cieli, la virtù de’ luoghi inferiori. E per questo veggiamo che alcuni huomini et popoli sono nati atti a signioreggiare et altri a ubbidire, come dicie Aristotile nella Politicha: e a ·ccostoro è hutile essere sottoposti et g[i]usto che subg[i]ugati sieno. E ·sse così è, non è dubbio che ·lla natura abbia disposto nel mondo huno luogho et una gente atta allo huniversale inperio: altrimenti mancherebbe nel suo proposito.

Qual sia questo populo per le cose dette et per le a dire si vede; et questo è Roma. Questo manifesta Virgilio nel sesto, dove Anchisse così parla ad Enea padre de’ Romani: «Altri huomini scholpiranno meglio ne’ metalli, et ne’ marmi faranno volti quasi vivi, et horeranno meglio innanzi a’ g[i]udici, et misureranno e corsi de’ cieli: ma ·ttu, Romano, terrai a mente di reggere e popoli con inperio. Queste saranno l’arti tue: dare modo alla pacie, perdonare agli humili, e scacciare e superbi». E nel quarto libro discrive la dispositione del luogho, dove introducie G[i]ove parlante a Merchurio d’Enea in questo modo: «La madre sua bellissima non ce lo promisse tale, e due volte lo difende da l’arme de’ Greci; ma disse che sarebbe quello che reggesse la Ytalia piena d’inperio et in battaglia potente». Per le cose dette è manifesto che ’l populo romano fu dalla natura hordinato a inperare. Adunque, sobg[i]oghando a ·ssé la terra, rag[i]onevolmente s’atribuì lo ’nperio.