Monarchia/Libro II/Capitolo X
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Quello che ·ss’aquista per duello, di ragione s’aquista. Inperò che dovunche l’umano g[i]udicio mancha, o per ignoranza o per none avere ricorso al g[i]udicie, acciò che non rimangha adietro e veri g[i]udici, si debba ricorrere a ·ccolui che ·ttanto amò la natura humana che quello ch’ella chiedeva, lui del propio sangue morendo suplì. Onde dicie el salmo: «El Signiore è g[i]usto et amò la giustitia». E questo aviene quando per libero consentimento delle parti, non per odio, ma per amore di g[i]ustitia, faccendo conparatione delle forze della anima et del corpo, dipoi si richiede el g[i]udicio: e questa conparatione di conbattere, perché fu trovata in prencipio tra huno et huno, si chiama ’duello’. Ma senpre si vuole riguardare che, nelle cose belliche, prima si debbano tutte le cose tentare per diciepratione, et hultimamente conbattere, come Tulio et Vegetio comandano (Vegetio nell’Arte militare, et Tulio negli Hufici); ancora, nella cura medicinale prima si vuole provare hogni altro rimedio che ’l ferro e ’l fuocho; similmente, per avere el g[i]udicio della lite, investigate tutte le vie, hultimamente a questo rimedio richorriamo, costretti da una certa necessità di g[i]ustitia. Due ragioni formali del duello apparischono: l’una è hora detta; l’altra di sopra si tocchò, e questo è che né per odio, né per amore, ma per solo zelo della g[i]ustitia con comune consenso e duo conbattenti venghino in chanpo. E però Tulio, parlando di questa materia, bene disse: «Le battaglie, che pretendono alla corona dello inperio, debono essere meno acerbe». Adunque, se ·lle ragioni formali del duello s’hanno a conservare, perché altrimenti non sarebbe duello, quegli che ·ssono per necessità di g[i]ustitia et comune consenso ragunati pel zelo della g[i]ustitia, certamente sono nel nome di Dio congreghati. E ·sse così è, Iddio istà nel mezo di loro, conc[i]osiaché nel Vangeloquesto ci promette. E ·sse Dio è presente, non è licito pensare che la g[i]ustitia possa perdere, la quale lui sopra tutto ama. E ·sse la g[i]ustitia nel duello non può perdere, quello che ss’aquista per duello s’aquista pe rag·[i]one. Questa verità ancora e Gentili innanzi alla evangelicha tronba conobbono, quando e’ cerchavano el g[i]udicio dalla fortuna del duello. Onde Pirro, huomo generoso sì pel sangue d’Acchille, sì etiandio pe’ costumi, rispuose a’ leghati romani mandati a ·llui pe riconperare e prigioni: «Io non apetischo horo, non mi date prezo alcuno; io non fo mercatantia di ghuerra, anzi conbatto per onore; con ferro, non con oro, conbattiamo insieme, e così veggiamo chi vuole la fortuna che regni; proviamo colle virtù nostre chi esalta la fortuna. Io intendo perdonare a ccoloro che ·ccolla virtù loro hanno superata la fortuna; menategli con voi; io ve gli dono». Quello che Pirro chiama ’la fortuna’ noi più rettamente chiamiamo ’divina providentia’. E però si guardino e conbattenti che non si propo[n]ghino prezo come cagione di loro conbattere, ché non si chiamerebbe duello, ma merchato di sangue et d’ing[i]ustitia; et non sarebbe quivi arbitro Iddio, ma quello anticho nimico, el quale persuadeva liti. Adunque abbino senpre innanzi agli occhi loro e conbattenti, se vogliono essere duelli, none mercatanti di sangue et d’ing[i]ustitia, Pirro, el quale conbattendo per lo inperio, come è detto, sprezava l’oro. Ma se contro alla verità dichiarata alcuno s’oppongha della inparità delle forze, come fare si suole, costui si confuterà per la vittoria di Davit contro a Golia; e ·sse e Gentili richiedessono altro, confutino colui per la vittoria d’Ercule conro Anteo. Egli è molto paza cosa extimare che ·lle forze da Dio confortate sieno inferiori alle forze de’ conbattenti. G[i]à è assai dichiarato che quello che ·ss’aquista per duello s’aquísta per rag[i]one. El popolo romano aquistò lo ’nperio per duello, e questo si pruova con testimoni degni di fede; nella manifestatione de’ quali non solamente apparirà questo, ma etiandio c[i]ò che’ Romani dal loro prencipio combatterono, essersi per duello combattuto. Inperò che nel prencipio, quando si conbatteva della sedia d’Enea, primo padre di questo popolo, Turno re de’ Rutolii vi si contrapuose, e finalmente, per comune consenso d’amendue e re, per conoscere qual fusse el piacimento di Dio, tra loro due fue el conbattimento, come canta Vergilio nell’ultimo. Nella quale battaglia fu tanto la clemenza d’Enea vincitore, che ·sse non avessi veduto apresso a Turno el collare, el quale rubò a Pallante quando l’uccise, gli arebbe perdonata la vita, come dicie Virgilio. E dapoi che germinorono due populi della radicie de’ Romani (e questo fu el popolo romano e l’albano), et del segnio dell’aquila et degli iddii familiare de’ Troyani et degnità dello ’nperare lungho tenpo si fu conbattuto, inn ultimo, di comune consentimento delle parti, per conoscere l’istantia, per tre fratelli Horatii et per altrectanti fratelli Croatii, nel cospetto de’ re et de’ populi, si conbatté: ove, morti tre conbattitori degli Albani, a due conbattitori de’ Romani l’onore della vittoria si concedette sotto el re Hostilio. E questo tractò diligentemente Livio nella prima parte, et ancora Horosio lo manifesta. Dipoi co’ populi a loro confini, hosservata ogni ragione bellicha, e co’ Sabini et co’ Sanniti, benché si combattessi con gran moltitudine, nientedimeno si conbatté in forma di duello, come narra Livio; nel qual modo di conbattere co’ Sanniti si pentirono del proposito. E questo cantò Lucano nel secondo: «Quante schiere sparse condusse la porta Collina in quel tenpo, quando el capo del mondo et la potenza somma quasi mutò el luogho, e ·lle cose romane quasi cedettono a’ Sanniti». Ma dappoiché ·lle contentioni ytaliche furono cessate, non s’essendo ancora conbattuto co’ Greci, né con gli Africhani, et hopponendosi costoro a’ Romani, contendé Fabritio pe’ Romani et Pirro pe’ Greci, et hottenne Roma; conbatté Scipione per gli Ytaliani et Anibale per gli Africani, et in questa forma di duello Africha hubbidì a Roma, come Livio et gli altri scriptori narrano. Qual sarà di sì grosso ingegnio che non vegha quel populo glorioso avere in forma di duello aquistato lo ’nperio del mondo? Ben poté dire el ciptadino romano quello che A Timotteo disse lo Appostolo: «Egli è riposta per me la corona della g[i]ustitia»; et intendeva ch’ell’era ’riposta’ nella providentia eterna di Dio. Veghano hora e prusuntuosi g[i]uristi quanto sieno inferiori a quello spechulo della ragione honde la humana mente specula questi princìpi, et taccino, e ·ssieno contenti g[i]udichare secondo el senso della legge. Egli è g[i]à manifesto che ’l populo romano per duello aquistò lo ’nperio: adunque pe rag·ione lo aquistò; e questo è el proposto principale di questo libro.
Infino quy s’è dichiarato el proposito nostro per le ragioni, le quali si fondano ne’ princìpi rationali; ma da hora in là è da manifestare questo medesimo pe’ princìpi della fede cristiana. Mossonsi con gran furore et con vani pensieri contro a il principato romano coloro che ·ssi chiamano zelatori della fede cristiana, et non hanno avuto misericordia de’ poveri di Cristo, e quali non solamente sono flauldati nelle rendite della chiesa, ma etian sono rapiti loro tutto die e patrimoni; e diventa la chiesa povera, mentreché, figniendo la g[i]ustitia, non la mettono inn–effetto. Certamente questa povertà non c[i] aviene sanza el g[i]udicio di Dio, conciosiaché non si sovengha a’ poveri delle facultà eclesiastiche che ·ssono e loro patrimoni; e dallo ’nperio, che offeriscie, non sieno tenuti con gratitudine. Ritornino honde vennono: vennono bene, ritornano male, perché sono cose ben date et male possedute. Che a tali pastori? Che ·sse la sustanza della chiesa si disperge, mentre ché ·lle propietà de’ propinqui loro s’acrescono? Ma egli è forse el meglio seguire el proposito, e con pietoso silentio aspettare el soccorso del Salvatore nostro.
Dico adunque che ·sse el romano inperio non fu di ragione, Cristo nascendo presunse cosa ing[i]usta; questa seconda parte è falsa: adunque el contraditorio della prima è vero. Inperò che ·lle cose contraditorie hanno questa conditione, che ·sse l’una è falsa, l’altra è vera. E ·cche sia falso che Cristo prosumessi cose ing[i]uste, non bisogna mostrarlo a’ fedeli: inperò che ·cchi è fedele concede questo; chi non lo concede non è fedele; e ·sse non è fedele, per lui non si cercha questa rag[i]one. Et questa conseguenza così dichiaro: colui che per eletione seguita uno comandamento, mostra con opera quello essere g[i]usto; et essendo l’opere più eficaci a persuadere che ·lle parole, come dice Aristotile nella Eticha, più persuade che ·ss’egli affermasse con sermone. Ma Cristo, come testimonia Lucha suo scriptore, sotto lo edipto della autorità romana volle nascere della Madre Vergine, acciò che in quella singulare discritione della generatione humana el Figliuolo di Dio, fatto huomo, fussi discripto huomo: e questo fu uno confermare quello editto. E forse è più santa cosa extimare che quello editto divinamente huscì per Cesare, acciò che ·cColui, che ·ttanto tenpo s’era astettato nella conpagnia de’ mortali, con tutti gli huomini insieme sé medesimo consegniassi. Adunque Cristo con hopera persuadette che ’l comandamento dato dallo inperadore romano fussi g[i]usto. E conciosiaché al comandare g[i]ustamente ne seguiti la g[i]urisditione, è necessario che ·cchi persuadette el comandamento essere g[i]usto, persuadessi ancora la g[i]urisditione, la quale, se nonn–era di rag[i]one, non era g[i]usta. è da notare che l’argumento sunto alla distrutione del conseguente, benché per sua forma tengha per qualche luogho, nientedimeno la forza sua dimostra per la seconda figura, se ·ssi riduce così l’argumento per la positione dello antecedente secondo la figura prima. Adunque così s’argumenta: ogni cosa ing[i]usta si persuade ing[i]ustamente; Cristo non persuade ing[i]ustamente: adunque non persuade cosa ing[i]usta.