Morgante/Cantare settimo

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Cantare settimo

../Cantare sesto ../Cantare ottavo IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% Poemi epici

Cantare sesto Cantare ottavo

 
1   Osanna, o Re del sempiterno regno,
     che mai non abandoni i servi tuoi
     e perdonasti a quel che gustò il legno
     che gli vietasti già, per gli error suoi;
     aiuta me, sovvien tanto il mio ingegno
     che basti al nostro dir, come tu puoi,
     sì ch’io ritorni alla mia istoria bella
     cogli occhi volti a te come a mia stella.

2   Rinaldo il conte Orlando rimirava;
     Orlando non sapea di tale effetto;
     ed Ulivieri spesso sogghignava:
     non gli cognosce, ch’avevon l’elmetto.
     Allor Rinaldo a parlar cominciava:
     - A questi dì trovamo in un boschetto
     tre cavalier cristian feroci e forti,
     e tutti a tre gli abbiam lasciati morti.

3   Per certo oltraggio che ci vollon fare
     a corpo a corpo insieme ci sfidamo,
     e cominciamo le spade a menare;
     finalmente di forza gli avanzamo.
     Credo che’ lupi gli possin trovare,
     ché nel boschetto morti gli lasciamo.
     Ma cavalier parean da spada e lancia
     ch’eran venuti del regno di Francia. -

4   Orlando, quando udì queste parole,
     rispose presto: - Ben avete fatto:
     tutti son rubator; non me ne duole;
     io n’ho già gastigati più d’un tratto:
     così sempre a’ nimici far si vuole.
     Ma dimmi, cavaliere, a ogni patto
     i nomi lor, per veder s’io cognosco
     di questi alcun ch’uccidesti in quel bosco. -

5   Disse Rinaldo: - Egli ha nome Ulivieri
     l’un di costor, che dice era marchese;
     l’altro da Montalban quel buon guerrieri
     ch’aveva fama per ogni paese;
     credo che ’l terzo anco era cavalieri,
     Dodon chiamato, figliuol del Danese. -
     Orlando udendol si maravigliava,
     ma del lïon con seco dubitava.

6   Seguì più oltre il suo ragionamento
     Rinaldo: - Io intendo mostrarvi i cavagli. -
     Orlando disse: - Io ne son ben contento,
     che’ nomi lor non posso ritrovàgli. -
     Vanno a vedere. Orlando ebbe spavento
     sùbito come comincia a guardàgli,
     perché e’ conobbe presto Vegliantino,
     e disse: «Il ver pur dice il saracino».

7   Alla sua vita mai fu più doglioso,
     e poco men che in terra non cadea.
     Ulivier, che ’l vedea sì doloroso,
     drento all’elmetto con seco ridea.
     Tornano in sala. Il paladin famoso
     vendetta farne fra sé disponea,
     e disse: - S’altro tu non vuoi parlarmi,
     a Manfredonio al campo vo’ tornarmi. -

8   Disse Rinaldo: - Alquanto v’aspettate -;
     e menò in una camera il barone;
     e poi che l’arme sue s’ebbe cavate,
     la sopravvesta e l’altre guernigione,
     mostrava le divise sue sbarrate;
     trassesi l’elmo, e così il borgognone.
     Orlando, quando Rinaldo suo vede,
     per gran letizia tramortir si crede.

9   Abbraccia mille volte il suo cugino;
     Ulivieri abbracciava il suo cognato;
     diceva Orlando: - O giusto Iddio divino,
     che grazia è questa, ch’io t’ho qui trovato! -
     Poi domandò dell’altro paladino:
     - Dodon dove è, che tu m’hai nominato? -
     Disse Rinaldo: - Sappi che Dodone
     è quel che venne preso al padiglione. -

10 Morgante vide costoro abbracciare,
     e disse al conte: - Per tua gentilezza,
     chi son costor non mi voler celare,
     che tu gli abbracci con tal tenerezza. -
     E poi che udì Rinaldo ricordare
     ed Ulivieri, avea grande allegrezza,
     e inginocchiossi e per la man poi prese
     Rinaldo presto e ’l famoso marchese;

11 e pianse allor Morgante di buon core.
     Re Caradoro in zambra era venuto.
     Dicea Rinaldo: - Cugin di valore,
     per mio consiglio, s’a te par dovuto,
     non tornerai nel campo: io ho timore
     che Manfredon non t’abbi conosciuto,
     o come a Carador Gan gli abbi scritto.
     Ma Dodon nostro ove riman sì afflitto? -

12 Disse Morgante: - Lascia a me il pensiero:
     io lo condussi al padiglion di peso,
     così l’arrecherò qui come un cero. -
     Orlando disse: - Morgante, io t’ho inteso,
     e del tuo aiuto ci fa qui mestiero. -
     Morgante più non istette sospeso;
     disse: - A me tocca appiccar tal sonaglio;
     ma ogni cosa farò col battaglio. -

13 A Manfredonio andò caütamente,
     e per ventura giugneva il gigante
     che Dodone era a Manfredon presente,
     che lo voleva impiccar far davante
     al padiglion; Dodone umilemente
     si raccomanda; in questo ecco Morgante,
     e disse a Manfredon: - Che vuoi tu fare? -
     Manfredon disse: - Costui fo impiccare.

14 Non lo impiccar: - disse Morgante presto
     - dice Brunoro ch’io il meni alla terra,
     e dè’ saper per quel che faccia questo:
     tu sai ch’egli è fidato e che e’ non erra. -
     Rispose Manfredon: - Venga il capresto;
     io vo’ impiccarlo come s’usa in guerra:
     sia che si vuole o seguane alfin doglia,
     ch’io mi trarrò, Morgante, questa voglia. -

15 Dicea Morgante: - Il tuo peggio farai,
     ché si potrebbe disdegnar Brunoro,
     e se tu perdi lui, tu perderai
     me e ’l tuo stato col tuo concestoro.
     Io il menerò, se tu mi crederrai.
     Credo che accordo tratti Caradoro,
     e forse ti darà la sua figliuola,
     ch’io n’ho sentito anco io qualche parola. -

16 Manfredon disse: - Per lo iddio Macone
     è già due dì ch’io giurai d’impiccarlo,
     come tu vedi, innanzi al padiglione:
     non è Macone iddio da spergiurarlo. -
     Allor chiamava il suo Cristo Dodone
     che non dovessi così abbandonarlo.
     Morgante, udendo far questa risposta,
     a Manfredon più dappresso s’accosta

17 e ’l padiglione squadrava dintorno:
     vide ch’egli era un padiglion da sogni;
     prima pensò d’appiccarli un susorno
     al capo, e dir ch’a suo modo zampogni;
     poi disse: «Questo sare’ poco scorno,
     e credo ch’altro unguento qui bisogni».
     E finalmente il padiglion ciuffava
     di sopra e tutte le corde spezzava.

18 Dètte una scossa sì forte e villana
     ch’arebbe fatto cadere un castello,
     o s’egli avessi scossa Pietrapana,
     arebbe fatto come e’ fece a quello.
     Così in un tratto il padiglion giù spiana,
     e d’ogni cosa ne fece un fardello
     e Manfredonio e Dodon vi ravvolse,
     e fuggì via, e ’l suo battaglio tolse.

19 E in su la spalla il fardel si gittava;
     dall’altra man col battaglio s’arrosta,
     e ’l capo a questo e quell’altro spiccava
     di que’ pagan che volevon far sosta;
     talvolta basso alle gambe menava,
     tanto che ignuno a costui non s’accosta,
     e teste e gambe e braccia in aria balzano:
     la furia è grande e le grida rinnalzano.

20 Sùbito il campo è tutto in iscompiglio
     e corron tutti come gente pazza.
     Morgante fece il battaglio vermiglio
     di sangue e intorno con esso si spazza,
     ed a chi spezza la spalla, a chi il ciglio.
     E Manfredon quanto può si diguazza
     e grida e scuote e chiamava soccorso;
     Dodon più volte l’ha graffiato e morso.

21 Morgante il passo quanto può studiava,
     ed a dispetto di tutti i pagani
     passato ha il fiume e ’l fardel ne portava,
     tanto menato ha il battaglio e le mani.
     Ma finalmente Dodone affogava,
     onde e’ gridò: - Se scacciati hai que’ cani,
     posami in terra, ch’io son mezzo morto,
     per Dio, Morgante, e donami conforto. -

22 Morgante in terra posava il fardello,
     ché non aveva più dintorno gente,
     e confortava Dodon cattivello.
     Ma poi di Manfredon poneva mente
     ch’era ravvolto come il fegatello:
     vide che morto parea veramente,
     e disse: - Te non porterò alla terra:
     poi che se’ morto, finita è la guerra. -

23 Disse Dodon: - Deh, gettalo nel fiume. -
     Morgante vel gittò sanza più dire.
     Ma presto ritornâr gli spirti e il lume,
     però che l’acqua lo fe’ risentire
     come egli è sua natura e suo costume,
     e Manfredon comincia a rinvenire;
     e corse là di pagani una tresca,
     tanto che infine costui si ripesca.

24 Morgante con Dodon suo se n’andava
     e rimenollo a Rinaldo ed Orlando,
     e la novella a costor raccontava
     come il pagan venne al fiume gittando
     e che sia morto con seco pensava,
     e come il padiglion venne spianando:
     non dimandar che risa fuor si caccia.
     E Dodon mille volte Orlando abbraccia;

25 e intese tutto ciò ch’era seguito,
     e come Gan gli seguitava ancora.
     Re Manfredon, che s’era risentito,
     con gran sospiri in sul campo dimora,
     maravigliato del gigante ardito,
     e come uscito dell’acqua era fora;
     e d’ogni cosa che gli era incontrato
     gli pareva a lui stesso aver sognato.

26 In questo giunse un messaggier di Gano
     che l’avvisava come Caradoro,
     e come e v’è il signor di Montalbano
     ed Ulivieri e Dodon con costoro,
     e nel suo campo il sanator romano;
     e che cercavan sol del suo martoro,
     e come il tradimento doppio andava
     per pigliar due colombi a una fava.

27 «Ah!» disse Manfredonio «or la cagione
     so perché Orlando è ito alla cittade;
     e quel prigion doveva esser Dodone.
     Or si conosce la lor falsitade;
     or son tradito, or son giunto al boccone,
     e vassi pure a Roma per più strade.
     Ma traditor non credevo che ’l conte
     fussi né ignun del sangue di Chiarmonte.

28 Ora aremo acquistata qua la dama
     e Caradoro vinto con assedio:
     questi son paladin di tanta fama
     ch’io non cognosco al mio stato rimedio.
     Questo gigante ha condotta la trama,
     perché più in dubbio mi teneva e tedio
     che fussin tutti baroni affricanti,
     ché tra’ cristian non suole esser giganti».

29 Ebbe re Manfredon tanta paura
     che si pensò la notte di fare alto;
     poi disse: «Noi siàn sì sotto alle mura
     che non si può spiccar qui netto il salto:
     e’ ci bisogna provar l’armadura
     ed aspettar de’ nimici l’assalto;
     non sarà giorno, che Rinaldo e ’l conte
     ed Ulivieri scenderanno il monte,

30 e tutto il campo mio sarà in travaglio;
     e ne verrà Dodon per far vendetta,
     e quel dïavol con quel suo battaglio
     alla mia gente darà grande stretta.
     Pur ci convien stare fermi al berzaglio,
     e Macon priego che le man ci metta».
     E mentre che e’ dicea queste parole
     tutti i baron per suo consiglio vuole;

31 ed accordârsi che si stessi saldo.
     Tutta la notte stetton con sospetto.
     Morgante, ch’era di potenzia caldo,
     la sera al conte Orlando aveva detto:
     - Poi ch’egli è morto Manfredon ribaldo,
     non sarà prima dì, ch’io vi prometto
     ch’io voglio andar col mio battaglio solo
     tra que’ pagani in mezzo dello stuolo,

32 ed arder le trabacche e’ padiglioni:
     colla granata gli voglio scacciare.
     Vedrete che bel fummo da’ balconi
     e tutto il campo a furia spulezzare:
     io gli farò fuggir come ghiottoni.
     Le pecchie soglion pel fuoco sbucare:
     io porterò il battaglio e ’l fuoco meco;
     vedrete poi che mazzate di cieco.

33 Mancato è il capo, male sta la coda:
     adunque male star dèe tutto il dosso.
     Per gli occhi a tutti schizzerà la broda;
     io schiaccerò la carne e’ nervi e l’osso
     quand’io darò qualche bacchiata soda.
     So ch’al principio n’arò molti addosso,
     ma tutti poi gli vedrete fuggire. -
     Orlando per le risa è in sul morire,

34 e disse: - Va’, ch’io ne son ben contento -;
     e poi si volse ove Caradoro era,
     e sì dicea: - Questo ragionamento
     so che saranno parole da sera
     che come fummo ne le porta il vento
     o distruggonsi al sol qual neve o cera.
     A me par, Caradoro, da vedere
     quel che fa il campo e le pagane schiere.

35 Se per se stessi si dipartiranno,
     lasciàgli andar, che mi par più sicuro,
     però che sempre è nel combatter danno,
     e solo Iddio sa il tutto del futuro.
     Vedren pur che partito piglieranno,
     e starenci doman qui drento al muro.
     Non si partendo il dì, poi gli assaltiamo,
     ché in ogni modo te salvar vogliamo.

36 Poi ci darai la tua benedizione
     e cercheremo ancor meglio il Levante. -
     E così disse Rinaldo e Dodone
     ed Ulivier; ma non v’era Morgante.
     Vannosi a letto con questa intenzione,
     ch’avevon tutti cenato davante;
     e Caradoro avea massimo onore
     a tutti fatto e con allegro core.

37 Morgante avea mangiato quel che vuole,
     un gran castron che gli fu dato arrosto;
     andossi prima a letto che non suole,
     ché come e’ disse fare era disposto.
     Né prima in orïente apparì il sole
     l’altra mattina, che e’ si lieva tosto;
     prese il battaglio e certo fuoco in mano
     ed avvïossi nel campo pagano.

38 E saracin trovò ch’erano armati,
     ma pure il fuoco in un lato appiccòe
     dove erano i destrier sotto i frascati,
     tanto che molti di quegli abbruciòe.
     Ma furon presto scoperti gli agguati
     e in mezzo a più di mille si trovòe,
     e tutto il campo a furia sollevossi:
     ognuno addosso al gigante cacciossi.

39 E gli feciono intorno un rigoletto
     che lo faranno cantare in tedesco:
     al ponte di Parisse era in effetto
     in mezzo a’ saracini, e stava fresco!
     Chi getta lance e chi sassi nel petto;
     pure al battaglio stavano in cagnesco;
     ma tanta gente alla fine v’è corso
     che gli bisogna a Morgante soccorso;

40 e tuttavia più la turba s’affolta.
     Era sì grande e sì grosso il gigante
     ch’ognun che getta facea sempre còlta.
     Pur molti morti n’aveva davante,
     ché chi toccava il battaglio una volta
     lo sfracellava dal capo alle piante;
     e spesso tondo il battaglio girava
     e cento capi per l’aria balzava,

41 tanto che ’l cerchio facea rallargare;
     alcuna volta menava frugoni
     che si sentien le corazze sfondare,
     e pesta loro i fegati e’ polmoni;
     quando si sente arnesi sgretolare
     e d’ogni gamba farne due tronconi.
     E grida e mugghia il gigante feroce,
     tanto che assai ne stordisce la voce.

42 E’ pareva ogni volta che mugghiava
     quando Cristo - Quem queritis - diceva,
     ch’ognuno a quella voce stramazzava.
     E tanti morti dintorno n’aveva
     ch’ognun discosto alla fine lanciava,
     e chi con dardi e chi archi traeva;
     tal che Morgante di molte uova succia
     per le ferite, e come orso si cruccia.

43 Egli era come a dare in un pagliaio;
     e già tutto forato come un vaglio
     e’ si volgeva come un arcolaio
     a’ saracin che faceano a sonaglio;
     e mai non uccideva men d’un paio
     quando e’ menava più lento il battaglio;
     e più di cinquemila n’avea morti,
     ma ricevuto da lor mille torti.

44 Avea nel dosso migliaia di zampilli
     che gettan sangue già per le punture
     ch’erano state d’altro che d’assilli;
     chi dà percosse di mazze e di scure,
     chi il petto par, chi le gambe gli spilli,
     chi dà sassate che parevon dure:
     era un diluvio la gente ch’è intorno
     per ammazzare il gigante quel giorno.

45 E già pel campo il romore è sì forte
     ch’alla città ne fu tosto sentore;
     le guardie ch’eran lasciate alle porte
     cominciorno a gridar con gran furore
     come Morgante era presso alla morte.
     Diceva Orlando: - Vedrai bello errore:
     che Manfredonio sarà iscampato,
     e questo matto ha il suo campo assaltato.

46 Tanto andata sarà la capra zoppa
     che si sarà ne’ lupi riscontrata.
     Questa sua furia alcuna volta è troppa;
     e fece pure inver pazza pensata
     d’ardere un campo come un po’ di stoppa,
     e come a’ topi far colla granata;
     ma il topo sarà egli in questo caso,
     al cacio nella trappola rimaso. -

47 Sùbito fece i suoi compagni armare,
     e Caradoro le sue gente tutte,
     perché Morgante si possi aiutare
     da’ saracin che gli davon le frutte:
     così avvien chi pel fango vuol trottare
     e può di passo andar per le vie asciutte.
     E fece a Vegliantin la sella porre
     Orlando, ché ’l destrier suo vuol pur tòrre;

48 a Ulivier si fe’ dar Durlindana,
     ed a lui dètte Cortana e Rondello;
     e la bella e gentil Meredïana
     Ulivieri arma, che è ’l suo damigello.
     Corsono al campo alla turba pagana
     sì presto ognun, che pareva un uccello.
     Morgante vide il soccorso venire
     e col battaglio riprese più ardire.

49 E cominciava a sgridar que’ pagani
     e far balzar giù molti della sella
     e capi e braccia in tronco e spalle e mani:
     tocca e ritocca e risuona e martella,
     e’ saracini uccide come cani:
     un mezzo braccio v’alzâr le cervella;
     e sopra i corpi morti si cacciava
     addosso a’ vivi, e la rosta menava;

50 ed ogni volta levava la mosca,
     ma ne portava con essa la gota,
     o dove e’ par che bruttura cognosca
     sempre col pezzo ne lieva la nuota.
     L’aria pareva sanguinosa e fosca,
     sì spesso par che ’l gigante percuota;
     balzano i pezzi di piastra e di maglia
     come le schegge dintorno a chi taglia.

51 E spesso avvenne ch’un capo spiccòe,
     e poi quel capo a un altro percosse
     sì forte che la testa gli spezzòe,
     e morto cadde che più non si mosse.
     Oh quanti il giorno all’inferno mandòe!
     Quanti morti rimason per le fosse!
     E Manfredonio già s’è messo in punto
     con molta gente, e in quella parte è giunto.

52 Dall’altra parte Orlando è comparito,
     e ’l sir di Montalban tanto gagliardo
     che accetta prima ch’uom facci lo ’nvito;
     e fece un salto pigliare a Baiardo
     in mezzo dove il gigante è ferito:
     sopra gli uomin saltò sanza riguardo,
     e ritrovossi al rigoletto in mezzo
     de’ saracin, ch’omai faranno lezzo.

53 Quando Morgante vedeva quel salto,
     parve che ’l cuore in aria si levasse,
     ché più di dieci braccia andò in aria alto
     Baiardo, prima che in terra calasse.
     Or qui comincia il terribile assalto.
     Rinaldo presto Frusberta sua trasse,
     quella che fésse il mostro da l’inferno,
     per far de’ saracin crudo governo:

54 punte, rovesci, tondi, stramazzoni,
     mandiritti, traverse con fendenti,
     certi tramazzi, certi sergozzoni:
     in dieci colpi n’uccise ben venti;
     e chi partiva insin sotto agli arcioni,
     chi insino al petto, e ’l manco insino a’ denti;
     e le budella balzavan per terra:
     mai non si vide tanto crudel guerra.

55 Orlando nostro sprona Vegliantino:
     giunse d’un urto tra quel popol fello
     che più di cento caccia a capo chino;
     poi cominciava a toccare a martello:
     non tocca il polso sopra il manichino;
     facea de’ saracin come un macello;
     ed avea detto: - Non temer, Morgante:
     Cesare è teco ove è il signor d’Angrante. -

56 Queste parole avean sì sbigottiti
     i saracin, che assai del popol fugge;
     e buon per que’ che son prima fuggiti,
     tanto i nostri baron già ciascun rugge:
     e’ ne facean gelatine e mortiti;
     a poco a poco la turba si strugge.
     Ed Ulivieri e Dodon giunti sono
     con romor grande che pareva un tuono;

57 e Manfredonio in sul campo scontrava:
     la lancia abbassa, ché lo conoscea.
     Re Manfredonio il cavallo spronava,
     ed Ulivieri allo scudo giugnea
     e insino alla corazza lo passava,
     tanto che tutto d’arcion lo movea:
     e sì gran colpo fu quel che gli diede
     ch’Ulivier nostro si trovava a piede.

58 Ed ogni cosa la donzella vide,
     ch’era venuta con sua gente al campo,
     e fra se stessa di tal colpo ride.
     Ulivier come un lïon mena vampo
     e per dolore il cor se gli divide,
     dicendo: «Appunto al bisogno qui inciampo:
     caduto son dirimpetto alla dama,
     donde ho perduto il suo amore e la fama».

59 Guarda se a tempo la trappola scocca!
     Non si potea racconsolar per nulla.
     Sempre Fortuna alle gran cose imbrocca,
     e insin sopra la soglia ci trastulla.
     Non domandar se questo il cor gli tocca.
     Per gentilezza allor quella fanciulla
     se gli accostava e diceva: - Ulivieri,
     rimonta, vuoi tu aiuto?, in sul destrieri. -

60 Or questo fu ben del doppio lo scorno,
     e parve fuoco la faccia vermiglia:
     are’ voluto morire in quel giorno.
     Meredïana pigliava la briglia,
     dicendo: - Monta, cavaliere adorno. -
     Or questo è quel ch’ogni cosa scompiglia,
     e per dolor dubitò sanza fallo
     non poter risalir sopra il cavallo.

61 Morgante aveva ogni cosa veduto,
     come Ulivier dal gran re Manfredonio
     del colpo della lancia era caduto
     e la donzella vi fu testimonio;
     e disse: «Io proverrò, come è dovuto,
     s’io gli potessi appiccar questo conio:
     io intendo d’Ulivier far la vendetta»;
     e inverso Manfredon presto si getta.

62 Meredïana, che ’l vide venire,
     gridava: - Indrieto ritorna, Morgante! -
     e Manfredonio correva assalire
     per far vendetta del suo caro amante.
     Morgante pur lo veniva a ferire,
     e come e’ giunse gridava il gigante:
     - Tu se’ qui, re di naibi o di scacchi?
     Col mio battaglio convien ch’io t’ammacchi! -

63 Disse la dama: - La battaglia è mia;
     e se ci fussi al presente qui Orlando,
     non mi faresti sì gran villania:
     tìrati addrieto, io ti darò col brando.
     Venuto è qua colla sua compagnia
     la fama e ’l regno di tòrmi cercando. -
     Morgante indrieto alla fine pur torna
     per ubbidir questa fanciulla adorna.

64 Trovò Dodone in luogo molto stretto,
     ch’era venuto tra cattive mane:
     pur s’aiutava questo giovinetto;
     e cominciava a dar mazzate strane,
     a questo e quello spezzando l’elmetto,
     tanto che gli elmi faceva campane
     quando egli assaggion di quel suo picciuolo;
     ma dà di sopra come allo orïuolo.

65 E rimaneva il segno ove e’ percuote:
     quanti ne tocca il battaglio feroce
     non si ponea più le mani alle gote,
     ché ne facea com’e’ fusse una noce;
     alcuna volta facea certe ruote
     ch’a più di sette domava la boce;
     com’un nocciol di pèsca ogn’elmo stiaccia
     e fa balzar giù capi e spalle e braccia;

66 e rimisse Dodon sopra il destrieri.
     Dodon gridava: - Ah, popol soriano!
     io ne farò vendetta e d’oggi e di ieri,
     quando impiccar mi volea quel villano. -
     In questo tempo il famoso Ulivieri
     era pel campo colla spada in mano,
     e dove Manfredon combatte arriva
     colla donzella florida e giuliva.

67 Una ora o più combattuto insieme hanno,
     e non si vede de’ colpi vantaggio.
     Ulivier tutto arrossì, come fanno
     gli amanti presso alla dama, il visaggio,
     e disse: - Dama, non ti dar più affanno:
     lascia pur me vendicare il mio oltraggio.
     Io vorrei esser morto veramente
     quand’io cascai che tu v’eri presente.

68 Alla mia vita non caddi ancor mai;
     ma ogni cosa vuol cominciamento. -
     Disse la dama: - Tu ricascherai,
     se tu combatti, cento volte e cento;
     e sempre avvenir questo troverrai
     a cavalier che sia di valimento:
     usanza è in guerra cascar del destriere;
     ma chi si fugge non suol mai cadere.

69 Io vo’ con Manfredon tu mi consenti
     che la battaglia mia sia in ogni modo,
     per vendicar non una ingiuria o venti,
     ma mille e mille, e che paghi ogni frodo. -
     Disse Ulivier: - Se così ti contenti,
     che poss’io dir, se non ch’io affermo e lodo? -
     Re Manfredon, che le parole intese,
     in questo modo parlava al marchese:

70 Per Dio ti priego, baron d’alta fama,
     tu lasci me come amante fedele
     perdere insieme e la vita e la dama,
     ché così vuol la Fortuna crudele.
     Cercato ho quel che cercar suol chi ama:
     trovato ho tòsco per zucchero e mèle;
     e poi che la mia morte ognun la vuole,
     per le sue man morir non me ne duole.

71 So ch’io non tornerò più nel mio regno;
     so che mai più non rivedrò Soria;
     so ch’ogni fato m’avea prima a sdegno;
     so che fia morta la mia compagnia;
     so ch’io non ero di tal donna degno;
     so ch’aver non si può ciò ch’uom desia;
     so che per forza di volerla ho il torto;
     so che sempre ove io sia l’amerò morto. -

72 Non poté far Meredïana allora
     che del suo amante pur non gl’increscessi,
     e disse: «Così va chi s’innamora!
     Se mille volte uccider lo potessi,
     per le mie man non piaccia a Dio ch’e’ mora,
     quantunque a morte si danni egli stessi».
     E pianse, sì di Manfredon gli dolse,
     ché essere ingrata a tanto amor non volse.

73 E ricordossi ben che combattendo
     l’aveva molte volte riguardata;
     dicea fra sé: «Perché d’ira m’accendo
     contro a costui? Perché son sì spietata?
     Ciò che fatto ha, com’io pur veggo e intendo,
     è per avermi lungo tempo amata:
     non fu lodata mai d’esser crudele
     alcuna donna al suo amante fedele;

74 questo non vuol per certo il nostro Iddio».
     Non sa più che si far Meredïana,
     e disse: - Manfredon, se ’l tuo desio
     è di morir, non voglio esser villana.
     Se tu facessi pel consiglio mio,
     per salvar te con tua gente pagana
     tu soneresti a raccolta col corno
     e in Orïente faresti ritorno.

75 Poi che non piace al tuo fero distino
     ch’io sia pur tua, come tu brami e vogli,
     perché pugnar pur contra al tuo Apollino?
     Io veggo il legno tuo fra mille scogli:
     tórnati col tuo popol saracino
     e ’l nodo del tuo amor per forza sciogli. -
     A questo Manfredon rispose forte:
     - Non lo sciorrà per forza altro che morte. -

76 Allor seguì la donzella più avante:
     - O Manfredon, di te m’incresce assai! -
     e diègli un prezïoso e bel diamante:
     - Per lo mio amor dicea - questo terrai,
     per ricordanza del tuo amor costante;
     e pel consiglio mio ti partirai.
     E se tu scampi e salvi le tue squadre,
     d’accordo ancor mi ti darà il mio padre.

77 Ogni cosa si placa con dolcezza,
     e chi per forza vuol tirar pur l’arco,
     benché sia sorïan, sai che si spezza;
     ogni cosa conduce il tempo al varco.
     E priego te per la tua gentilezza
     che tu comporti ogni amoroso incarco,
     e sia contento di qui far partita
     e in ogni modo conservar la vita.

78 La dipartenza, perché e’ non ci avanza
     tempo, ch’io veggo morir la tua gente,
     tra noi sia fatta, e questo sia abbastanza,
     poi che più oltre il Ciel non ci consente.
     E quel gioiel terrai per ricordanza
     ch’io t’ho donato, sempre in Orïente;
     e se Fortuna e ’l Ciel t’ha pure a sdegno,
     aspetta tempo e miglior fato e segno. -

79 Questa ultima parola al cor s’affisse
     a Manfredonio, udendo la donzella,
     che mai più fermo in dïaspro si scrisse;
     volea parlare e manca la favella;
     ma finalmente pur piangendo disse:
     - «Aspetta tempo e miglior fato e stella,
     poi ch’al Ciel piace, e tórnati in Soria»:
     quanto son vinto da tal cortesia!

80 Quando sarà quel dì quando fia questo?
     Or quel che non si può, voler non deggio.
     Io tornerò, per non t’esser molesto;
     ricòrdati di me, ch’altro non chieggio;
     col popol mio, con quel che c’è di resto,
     ché molti morti pel campo ne veggio,
     ritornerò sanza speranza alcuna
     nel regno mio, se così vuol Fortuna.

81 E per tuo amor terrò questo gioiello:
     questo sempre sarà presso al mio core.
     S’io ho peccato, lasso meschinello,
     contra al tuo padre e contra al mio signore,
     incolpane colui ch’è stato quello
     che m’ha condotto dove e’ vuole, Amore;
     e in ogni modo a te chieggio perdono
     e viver per tuo amor contento sono. -

82 E poi si volse al marchese Ulivieri
     e chiese a lui perdon del cadimento;
     Ulivier gli perdona volentieri,
     ché del suo dipartir troppo è contento,
     perché eran due gran ghiotti a un taglieri,
     ed era stato alle parole attento
     che dette avea Meredïana a quello,
     e confirmato e postovi il suggello.

83 E poi ch’egli ebbe lacrimato alquanto,
     re Manfredonio alfin s’accomiatava;
     e la donzella con sospiri e pianto,
     - Addio! - dicendo, la man gli toccava;
     e dèi pensar se si cavorno il guanto.
     Ulivier presto Orlando ritrovava
     e dicea ciò ch’egli avea fermo e saldo;
     e molto piacque a Orlando e Rinaldo.

84 Venne per caso quivi Caradoro,
     e intese come l’accordo era fatto.
     Morgante, insieme veggendo costoro,
     inverso lor col battaglio era tratto
     e quel che fussi saper vuol da loro;
     ma col battaglio non dava di piatto.
     Orlando disse: - Non far più, Morgante. -
     Allor più forte combatté il gigante.

85 Re Manfredonio e la sua compagnia
     contento è di lasciar Meredïana -
     diceva Orlando - e tornarsi in Soria. -
     Morgante allora il battaglio giù spiana,
     e disse: - Orlando, questa era tra via -,
     e dètte a uno una picchiata strana;
     un altro ammacca che parve di cera,
     ed anco questo ne’ patti non era.

86 Orlando disse: - Il battaglio giù posa:
     assai morti n’abbiàn per questo giorno. -
     Re Manfredon sua gente dolorosa
     per tutto il campo rauna col corno.
     E così la battaglia sanguinosa
     a questo modo quel dì terminorno,
     come nell’altro dir seguirò poi.
     Cristo vi guardi e sia sempre con voi.