Novelle (Brevio)/Novella VI
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NOVELLA VI.
Leggiadri et valorosi giovani, è stato sempre comune openione de’ savi, et di quelli massimamente li quali l’aspro et duro giogo maritale hanno provato, che la maggior passione et più malagevole a tollerare sia la moglie, quando quella, come le più delle volte interviene, s’abbatte ad esser ritrosa, sazievole et dispettosa. Et lasciando da parte infiniti esempi sopra ciò di filosofi et d’altri uomini eccellenti et nelle scienze profondi et nelle azioni di questo mondo esercitati, de’ quali le cronache, li libri et le istorie tutte sono ripiene, un caso che, non sono ancora molti anni passati, avvenne, intendo di raccontarvi, acciocchè da questo esempio fatti avveduti, più lieta et più serena possiate menar la vita vostra, quella noia fuggendo, alla quale il nemico delle anime vostre lusinghevolmente vi guida. Et se pure avviene che vogliate ammogliarvi, il che non biasimo, vi conforto a voler prima bene spiare et minutamente informarvi delle qualità della donna che prender volete.
Dico adunque che già s’intese per relazione d’un romito, uomo di santissima vita, che essendo tra le altre volte una notte nelle orazioni sue astratto, egli vide molte anime d’uomini dannati alle pene infernali, de’ quali la maggior parte si rammaricava di essere a tal miseria condotti, non per altro, che per non aver potuto sofferire l’orgoglio et la insolenza delle mogli loro, mentre furono in questa vita mortale, et chiedevano mercè, parendo loro non meritare il fuoco penace. Onde maravigliandosi molto di ciò Minos et Radamanto, et veggendo ogni ora vie più crescere il numero de’ cattivelli infelici, deliberarono di farlo intendere a Plutone lor capo, et così fecero. Il quale avendo alquanto sopra ciò profondamente considerato, chiamato il concilio, dopo le molte parole dette sopra questa materia, di pari consentimento di tutti gli infernal prencipi deliberarono di mandare Belfagore arcidiavolo in forma d’uomo in questo mondo, con provvisione di centomila ducati, et che egli fosse costretto et obbligato di prender mogliera, et di stare con esso lei diece anni: et che dopo questo fignesse di morire et ritornasse all’inferno, ragguagliando esso Plutone et gli altri prencipi minutamente de’ costumi et della vita della moglie, con questa condizione appresso, che durante il detto tempo egli fosse sottoposto a tutti quei disagi et mali co’ quali la nimica fortuna gli uomini di questo mondo in diversi modi affligge et tormenta; et con questo di giunta, che egli nẻ con inganno ne con astuzia alcuna se ne riparasse giammai. Speditosi adunque Belfagore, come che mal volontieri lo facesse, et prese le condizioni et danari, postosi bene in arnese con molti servidori et cavagli, a Firenze se ne venne. La qual città a lui più d’ogn’altra piacque, come quella ove più liberamente et senza rispetto alcuno egli poteva dare i suoi danari a cambio et ad usura. Quivi adunque fermatosi, facendosi chiamare Roderigo di Castiglia, prese casa nel borgo di ogni Santi, dicendo a chiunque di lui informar si voleva, che egli fanciullo partito s’era di Spagna, ed andatosene in Aleppe, là nella Soria, ove colla industria sua s’aveva guadagnato di molti migliaia di ducati; et che di quindi s’era partito et venuto a Firenze per prender donna et riposarsi civilmente vivendo. Era Roderigo, come che spagnuolo fosse, di vago et delicato aspetto, et mostrava di età d’anni trenta, leggiadro et piacevole molto. Ora non passaro molti mesi, che essendosi divolgata la fama della ricchezza et de costumi suoi, molti partiti gli furono posti innanzi, de’ quali uno più che gli altri gli piacque, et questo fu una figliuola di Amerigo Donati, uomo di sangue de’ più nobili della città, ma povero et di figliuole et di figli carico troppo più di quello che la facoltà sua sosteneva. Fece adunque Roderigo le nozze et belle et onorevoli molto, non vi lasciando cosa alcuna che in simile accidente si potesse desiderare: nè stette guari dappoi sposata la Ermellina, che così si chiamava la sposa, che dimesticandosi et praticando co’ più nobili uomini di Firenze, egli talmente ambizioso divenne, et sì gli cominciarono a piacere gli onori et le pompe del mondo, che incredibil quasi sarebbe a credere. Onde et a spesso metter tavola, et a donare fuor di misura si diede, et appresso, il che molto maggior danno et noja gli recava, sì fieramente della moglie s’innamorò, che qualora egli non la vedeva ne menava smanie, ne averebbe potuto vivere, se per avventura l’avesse veduta stare di mala voglia o trista. Ora aveva monna Ermellina portato nella casa di Roderigo insieme con la nobilitàet bellezza sua, tanta superbia, che non ebbe giammai tanta Lucifero; et Roderigo che l’una et l’altra provata aveva, quella della moglie di gran lunga estimava maggiore, la qual molto più crebbe poi ch’ella s’avvide dello amore che il cattivello marito le portava. Onde come colei, cui pareva poterlo fare senza rispetto alcuno, et non altrimenti che ad un famiglio li comandava, appresso quando da lui cosa alcuna ch’ella volesse, negata le veniva, con le più villane et ingiuriose parole che mai si udissero o dicessero proverbiandolo. Le quai cose a Roderigo erano di grandissima noia cagione: pur nondimeno risguardo avendo al suocero, a’ cognati et al parentado tutto ma molto più forzato dallo ardentissimo amore che egli le portava, et oltre di ciò, per la obbligazione che egli aveva fatta a Plutone, ogni seccagine, ogni scellerata et disonesta maniera della donna pazientemente sosteneva. Et avvenne, che oltre le infinite spese che egli faceva, sì nel vestirla ogni giorno di nove foggie, come in Firenze si costumava, sì eziandio in contentar ogni suo strano appetito, che egli fu costretto, vor lendo aver pace seco, di mandare l’uno de’ fratelli di lei con una grossa ragione di panni in Levante, l’altro con drappi in Ponente, al terzo aprire in Firenze un battiloro, nelle quai cose egli dispensò la maggior parte de’ suoi beni. Appresso nel tempo del carnovale et di San Giovanni di giugno, quando la città tutta per antica usanza festeggiava, et che molti de’ più nobili et de’ più ricchi cittadini, con isplendidissimi conviti l’un l’altro s’accarezzava et onorava, voleva monna Ermellina (la quale ad una imperatrice non avrebbe ceduto) che Roderigo tutti gli altri nello spendere di gran lunga trapassasse; le quai cose tutte per le sopraddette ragioni erano da lui con grandissima sofferenza passate, et gli sarebbono, ancora che gravissime fossero a tollerare, parute agevoli, se con esse la pace et la quiete della casa, egli avesse potuto avere; ma tutto il contrario gl’interveniva: perciocchè le insopportabili spese et di giunta la insolente natura della moglie infinite incomodità et disagi gli arrecavano, et non v’era in casa nè famigliar nè fante che pochissimi giorni; non che molto tempo gli sconvenevo i modi di costei potesse sofferire in maniera, che non pur quelli della città o del contado, ma i demoni medesimi che Roderigo seco in forma d’uomini per famigliari aveva con dotti, piuttosto di ritornarsi a casa il diavolo, che di stare in questo mondo sotto l’imperio di costei elessero. Standosi adunque il poverino di Roderigo in questa guisa, et avendo per le soverchie et disordinate spese consumato quanto mobile egli s’aveva, cominciò per mantenersi nel grado suo a viver sulle speranze de’ ritratti delle mercatanzie che egli di Levante et di Ponente aspettava; et avendo ancora buon credito, cominciò a prender a cambio; onde in poco tempo girandoglisi molti marchi addosso, fu notato da coloro che in mercato in simili maneggi si travagliavano. Et ancora non contenta di questo la volubile fortuna, la quale rade volte un male od un bene solo agli uomini suole arrecare, avvenne che in un subito s’ebbero nuove come uno de’ fratelli di monna Ermellina, il quale in Ponente era, s’aveva giucata la ragion tutta di Roderigo; et l’altro di Levante tornando sopra una nave carica di sue mercatanzie, senza altrimenti aversi fatto assicurare, insieme con quella s’era annegato. Le quai cose non prima furono intese, che li creditori di Roderigo ristretti insieme, non essendo ancora venuti li tempi de’ pagamenti loro, deliberarono di spiare che egli non se ne fuggisse. Dall’altra parte Roderigo rimedio alcuno a’ casi suoi non veggendo, ma molto più per essere stracco della mala vita che la moglie gli dava, una mattina per tempissimo levatosi, montato a cavallo per la porta al Prato, non guari discosto alla casa, ove egli si tornava, se n’uscio; et poco dopo li creditori suoi per una loro spia ciò inteso, et a’ magistrati ricorsi, con molti birri et amici loro a seguitarlo si misero. Non s’era a fatica il cattivello di Roderigo dilungato da Firenze due miglia, che egli udì lo calpestio de’ cavagli che lo seguivano; onde a mal partito veggendosi, della strada maestra uscito et del cavallo smontato, appiè questo et quel campo passando, et or questo or quel fossato valicando, coperto dalle vigne et da cannetti, di che quel paese è pieno, a cercar della sua ventura si mise, et tanto cammino et tanto corse, che egli a Peretola pervenne; et entrato incasa d’un Gianmatteo del Briga, lavoratore di Giovanni del Bene, quivi si ricoverò. Recava ap punto Gianmatteo da rodere a’ suoi buoi; perchè Roderigo quanto più strettamente poteo se gli raccomandò per Dio, pregandolo che delle mani de’ nemici suoi che lo seguivano lo liberasse, promettendogli, se ciò facesse, che ricco lo farebbe. Era Gianmatteo, come che contadino fosse, uomo animoso, et di Roderigo pietà prendendolo, estimando di non poter se non guadagnare, deliberò di salvarlo; onde sopra d’un monte di letame che avanti la casa aveva, postolo, et con alcune cannuccie et mondiglie che per arder aveva recate, copertolo, quivi lasciatolo, in casa se n’entrò. Non s’era a fatica Roderigo fornito di coprire, che sopraggiunti li suoi creditori cominciarono a cercar di lui; ma non potendo nè con preghiere nè con minaccie intender da Gianmatteo quello che di Roderigo fosse, partiti dopo averlo tutto quel giorno cercato in vano, a Firenze stracchi et di mal talento pieni se ne ritornarono. Gianmatteo, partiti costoro, quando tempo a lui parve scopertolo et del letame trattolo, gli richiese la promessa fattagli; al qual Roderigo, dopo averlo grandemente ringraziato, disse: io ho teco un grande obbligo, lo quale per ogni modo voglio soddisfare; et acciocchè tu creda che io possa farlo, sappi che io sono il tale. Quivi raccontandogli tutto quello che egli aveva fatto dopo l’uscita sua dell’inferno, et della moglie presa, et di ogni altro caso avvenutogli, aggiugnendo che il modo col quale egli intendeva di arricchirlo era questo: che udendo egli che alcuna donna spiritata fosse, credesse lui essere lo spirito che inquella entrato fosse. Oh, disse Gianmatteo, non sono elle tutte spiritate? et in quale entrerai et per qual buco. Rise allora Roderigo et disse: bene, io entrerò nella tale, et dal padre di lei faratti pagare a modo tuo: perciocchè io non me n’uscirò mai, se tu non verrai a trarmene: et questo detto, et in questa conchiusione rimasi, spari. Ora non passaro molti giorni che per tutta Firenze si sparse la fama, che una figliuola di Ambrogio Amidei, moglie di Buonaiuto Te baldini, era spiritata: onde et dal padre et dal marito fur fatti tutti que’ rimedi che in simili accidenti far si sogliono, come il metterle in capo la testa di San Zenobi, et addosso il mantello di San Giovan Alberto, et altre simili cose; le quali tutte per Roderigo erano tenute per nulla, et uccellate, per chiarire ogn’uno che il male della fanciulla era uno spirito, et non altre false immaginazioni. Parlava Roderigo latino et disputava delle cose segrete di filosofia, scopriva li peccati di molti, tra’ quali scopri quelli di uno frate di San Francesco, il quale molti anni aveva tenuta nella sua cella una fanciulla vestita a uso di fraticcino: di queste et altre simili cose ne diceva tante, che era una maraviglia ad udirle. Avendo adunque messere Ambrogio perduta ogni speranza che la fanciulla guarisse, avvenne, che sendo pervenuta la fama di questo caso agli orecchi di Gianmatteo, ricordandosi della promessa fattagli da Roderigo, andatosene a Firenze a casa messere Ambrogio, gli disse: che dove egli volesse donargli cinquecento fiorini d’oro per comperarsi un podere, egli si obbligherebbe di guarir la figliuola; lo qual partito messere Ambrogio molto volontieri accetto. Onde fatto Gianmatteo dir certe messe con alcune altre sue cerimonie appresso, tutto per dar colore alla cosa, accostatosi all’orecchio della donna, disse: Roderigo, io sono Gianmatteo venuto a trovarti, perchè tu m’osservi la promessa. Al quale rispose Roderigo: io sono contento, ma ciò non basta a farti ricco come io debbo et come io desidero; perciò partito ch’io sia di qui, entrerò nella figliuola di Carlo re di Napoli, nè mai di quindi mi partirò se tu non verrai a scacciarmene, et allora potrai farti fare un più ricco presente, et non mi dar più noia: et questo detto sen uscio, lasciando la donna libera non senza grande ammirazione di tutta Firenze. Nè passaro molti giorni appresso, che per tutta laltalia si disse una figliuola del re di Napoli essere indemoniata; ed essendo pervenuta alle orecchie del re, dopo molte sperienze fatte in vano, la fama di Gianmatteo, mandó per lui a Firenze; il quale giunto a Napoli, dopo fatte le solite cerimonie, liberò la figliuola del re; et avuto un presente di forse sei mille ducati, a casa se ne ritornò, et indi a pochi giorni presa casa in Firenze, a uso di cittadino si pose a godere delle ricchezze acquistate pel mezzo di Roderigo, non più curandosi di femmine spiritate. Standosi adunque Gianmatteo con la masnada sua tutta in santa pace, avvenne che Roderigo nella figliuola del re di Francia si mise; et non trovando alcuno che la deliberasse, fu ricordato al re per lo ambasciator di Firenze, Gianmatteo. Onde fatto scrivere alla signoria che lo mandasse in Francia, così su fatto. Giunto adunque Gianmatteo alla presenza del re, et intesa la bisogna, si volle scusare, dicendo non saper più l’arte, dicendo che v’erano de’ spiriti tanto maligni, che non temevano li maestri, et che egli dubitava che quello fosse de’ più tristi, dicendo ancora che di là da’ monti gli spiriti sono più malagevoli a scacciare che di qua; et tutto ciò faceva Gianmatteo per non far cosa che a Roderigo spiacesse; ma il re adiratosi giurò per le San Diu, che non liberando la figliuola, lo appenderebbe. Onde veggendosi Gianmatteo a mal partito, fatto buon cuore, dopo le usate cerimonie, fattasi venir la spiritata et agli orecchi di quella accostatosi, quanto più umilmente poteo, prego Roderigo che se n’andasse, ricordandogli il servigio fattogli, et appresso narrandogli a che termine et in quanto pericolo egli si trovava. Al quale Roderigo con un mal viso voltosi, disse: adunque, villano traditore, tu hai ardire di venirmi avanti? Or non ti basta quello che io t’ho fatto guadagnare? Che di lavoratore della terra sei gentile uomo divenuto? Et non te ne contenti? Or le vamiti dinanzi, se non che io ti farò un mal giuoco. Gianmatteo dopo lo avere più volte pregato invano Roderigo, dubitando dello sdegno suo, licenziata la damigella, disse al re: io v’ho detto, Sagra Maestà, che gli spiriti di queste parti sono più malagevoli a scacciare che quelli della Italia; nondimeno voglio fare un’altra sperienza. Farete adunque fare nella piazza di nostra Dama un palco grande, tanto che sopra vi possiate stare con tutta la corte vostra et col clero tutto della città; il qual palco voglio che sia apparato di drappi di seta et d’oro, et nel mezzo voglio che vi sia uno altare, et domenica prossima voglio che la maestà vostra col clero et co’ baroni tutti con real pompa et co’ricchi abbigliamenti di seta et d’oro venga sul detto palco, ove celebrata prima la messa, farete venire la damigella spiritata. Voglio oltre di ciò che dall’uno de’ canti della piazza insieme raunati siano li suonatori tutti di ogni sorte stormento, con gli stormenti loro, i quali quando io farò loro cenno col cappello mio voglio che tutti ad un tempo suonino, et suonando vengano al palco: le qual cose subito dal re ordinate furono. Venuta adunque la domenica, sendo il palco di personaggi ripieno et la piazza di popolo, cantata solennemente la messa, fue la damigella per mano di due vescovi, et da molti signori accompagnata, condotta sopra il palco. A Roderigo, vedendo tanto popolo et sì ricco apparato, pareva la più nuova cosa del mondo et la più strana; et non sapendo quello che ne dovesse riuscire, stava come trasognato fra sè medesimo dicendo: che cosa è questa? Pon mente che questo villano asino vorrà sbigottirmi con questo altare et con queste croci, ma io lo gastigherò per ogni modo. Gianmatteo accostatosi all’orecchio delladamigella, di nuovo cominciò a pregar Roderigo che se n’andasse; al quale egli, sorridendo, disse: mai sì: io me n’andrò per questi tuoi begli apparati; fa pur ciòche tu vuoi, che io non me ne voglio andare, anzi ci voglio io stare, acciocchè il re ti faccia impiccare. Allora a Gianmatteo non parve di tardar più; perchè fatto cenno col cappello a’ suonatori, tutti ad un tempo cominciarono a suonare, in maniera che n’andava il romore insino al cielo. Il che udendo Roderigo, alzati alquanto gli occhi, dimandò Gianmatteo, che romore fosse quello, onde venisse, et per qual cagione: il qual sembiante facendo di non saperne nulla, et di dimandarne alcuno de’ circostanti, tutto sbigottito disse: oimė, fratelmo, quella che ne viene in qua accompagnata da que’ suoni è moglieta. Roderigo allora, ciò udendo, senza altrimenti pensarvi, lasciata la damigella libera a casa ’l diavolo ale battendo se ne ritornò, amando meglio di viver nelle fiamme infernali, che di stare colla moglie; et Gianmatteo più avveduto che Belfagore, avuto un ricco presente dal re, lieto a Firenze se ne ritornò, et quivi lungamente visse.