Novelle (Sercambi)/Novella XVI

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Novella XVI

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XVI


L>a brigata e ’l preposto avendo udita la dilettevole novella di Pincaruolo e dello ’ndivino, essendo giunti al Borgo Sansipolcro lo preposto diliberò tenere il camino verso Massa di Maremma. E voltosi a l’autore, disse che ordinasse qualche dilettevole novella per confortare la brigata, pensando di far di tal camino ii giornate. Al quale l’autore parlò che volentieri darò’ piacere alla brigata fine che perverranno a Passignano di Perugia. E voltosi al preposto et alla brigata parlò alto dicendo:


DE VENTURA IN MATTO

Di Grillo che diventò notaio.


I>nnel contado di Siena, in una villa chiamata Ceravecchia <era> uno giovano il cui nome era Grillo, il quale ponendosi a stare con uno fornaciaio di matoni presso a Siena, e con alcune bestie portava li matoni e la calcina in Siena. E questo era tutto ciò che Grillo facea.

Et essendo stato alquanto tempo a portare matoni, divenne che uno senese, volendo fare uno palagio, comprò molti matoni dal maestro di Grillo. E tale avea uno notaio apresso alla casa dove Grillo andava. Et avendone portati molti giorni, et acostandosi alcuna volta alla cantora del notaio e vedendoli dare molti denari senza dare alcuna mercantia salvo che parole, stimò fra se medesmo: «Se io fusse notaio, io arei tanti denari senza molta fatica». E pensò al tutto volersi far chiamare ser Martino e non portare più matoni. [p. 89 modifica]

E tornato al suo maestro disse che facesse la sua ragione e che quello li dovea dare li desse, però che non era atto più di portare matoni. Lo maestro vedendo la volontà di Grillo disse: «Grillo, io ti darò quello hai guadagnato». Rispuose e disse: «Non dite più Grillo, ma dite ser Martino». Lo maestro suo disse: «Or dove aparasti che vuoi esser notaio?» Ser Martino disse: «Io so troppo». Lo maestro disse: «Tu dì lo vero». E allora, fatto il conto, diè a ser Martino lire xxv senesi.

Ser Martino quelli prese e comprèsi uno capuccio colla becca corta et uno libro, penna e calamaio, e prese una bottega e févi fare una cantora faccendosi nomare ser Martino da Ceravecchia. Stando ser Martino savio, alquanti giorni durò che fanciulli e manovali et altri lo schernivano. Ser Martino non rispondendo tacea, e dicea dapoi: «Se arete alcuna quistione venite a me et io v’aiuterò». E per questo modo passò li giorni ditti.

Spartosi la novella di ser Martino per la contrada, alcune donne et alquanti omini di buona pasta andavano a lui dicendo: «Noi abiamo la tale quistione». E l’altro dicea: «Et io hoe la tale». Ser Martino, che sapea tanto legere e scrivere quanto colui che mai non lesse, dicea a l’una: «Io t’aiuterò». E poi si rivolgea a l’altro dicendo: «Io ti difenderò». E udito quello diceano, tenendoselo a mente dicea che andasseno con Dio et altra volta tornassero. La donna li dava grossi vi, l’uomo fiorini uno, dicendo: «Questi abiate per principio». Ser Martino vedendo li denari disse: «Buon fu il mio pensato a farmi notaio». E asottigliandosi la memoria, pensò ogni dí sua quistione proponere a uno giudici nomato messer Cassesepetri.

E subito si partìo dicendoli: «Messere, la tal donna ha la tale quistione et hami dati grossi vi, e lo tale uomo ha la tale quistione et hami dato fiorini uno. Io voglio che tutto ciò che io guadagno sia mezzo vostro». Messer Cassesepetri disse fra sé: «Costui è fatto tosto procuratore: e’ non sae legere né scrivere e giá truova de’ matti, et io che sono giudici non ho persona che mi chiegia. Per certo, poi che costui a me così simplicimente viene et offre la metà lo vo’ consigliare». E fattoli la risposta della donna e quella dell’uomo e preso la metà de’ denari, disse a ser Martino [p. 90 modifica]che ogni volta che altri vi venìa si facesse lassare le suoi scritture e che intendesse bene la cosa. Ser Martino disse di farlo e tornò alla cantora.

La donna torna, e l’uomo. Ser Martino disse: «Tenete e rispondete questo, e da ora innanti m’aregate le vostre ragioni». La donna se n’andò alla corte e di subito il piato ebe vinto; e tornò a ser Martino dicendo: «Buono è stato il vostro consiglio: io ho vinto, e però tenete questi du’ fiorini». Ser Martino li prende. E pogo dimorando, venne l’uomo e simile disse che la quistione avea vinto et a ser Martino diè fiorini iiii. Ser Martino che vede questi denari, subito se ne va a messer Cassesepetri mostrandoli li vi fiorini et a lui ne diè iii dicendo: «La cosa va bene». E partisi da lui. Lo giudici disse ridendo: «Li matti vagliano più che’ savi, che in uno dì m’ha dato di guadagno quello che tutti li notari di Siena non m’hanno dato in uno anno». E pensò sottigliarsi innelle quistioni che ser Martino li portasse dinanti.

Avenne che, partitosi la donna e l’uomo della quistione, dicendo alla vicinanza loro lo savio consiglio dato per ser Martino da Ceravecchia per lo quale aveano vinta la quistione, e tanto fu il lodo che molti concorseno a ser Martino. Ser Martino udendo le questioni dicea: «Lassate fare a me, lassate le vostre ragioni». E presi di molti denari, a messer Cassesepetri tutti portava. E fu tanto il guadagno che ser Martino portava al giudici, che in men d’uno mese più di fiorini ccc li fe’ guadagnare, dicendo il giudici: «Costui mi farà il piú ricco giudici di Siena». E tanto crebe la fama per lo contado di Siena che moltissime quistioni l’erano comesse con grandi salari, che ogni dì fiorini xxv portava a messer Cassesepetri e tutte quistioni lo giudici li dava spedite senza a persona apalesare questo fatto; però se il giudici l’avesse appalesato, non che avesseno creduto sua sentenzia, li arebeno fatto male. E per questa maniera il giudici fu straricco; e portava vestimenti di gran valuta, intanto che tutti i giudici di Siena si meravigliavano come messer Casesepetri vestìa sì bene al piccolo guadagno che pensavano facesse, non sapendo altro.

Avenne che, sentitosi la fama per tutto Toscana della scienzia di ser Martino e delle quistioni che saviamente asolvea, essendo [p. 91 modifica]nata una quistione tra certi savi di Viterbo e non avendo chi tale quistione sapesse asolvere, udito il prefetto la fama di ser Martino di Ceravecchia pensò di mandare per lui. E subito scrisse a Siena al comune che piacesse loro di mandare a Viterbo ser Martino, et a lui scrisse una lettera che andasse, e che ben lo contentarè. Lo comune di Siena aute tali lettere, subito mandonno per ser Martino dicendoli tutto. Ser Martino, che s’avea fatto legere la lettera a messer Cassesepetri, disse quello voleano. Li anziani di Siena disseno che voleano che andasse a Viterbo. Ser Martino malvolentieri volea andar’e per comandamento si partìo da Siena con quella imbasciaria ch’era per lui venuta e caminò a Viterbo.

Giunto a Viterbo, il prefetto li fé’ grandissimo onore, disponendoli la cosa della quistione. Ser Martino, che così era grosso come l’acqua de’ maccaroni, a niente rispondea, salvo che disse che volea mangiare e dormire solo, con uno famiglio. Lo prefetto, credendo che per lo studio ciò dicesse, rispuose che li piacea, e subito li fe’ aparecchiare una camera e da poter vivere e comandò che la sera li fusse onorevilmente apparecchiata, dicendoli che s’aparecchiasse per la mattina seguente d’esser valente contra di coloro che la quistione non sapeano assolvere. Ser Martino penseroso (che li pare esser in un mondo nuovo) e impacciato, intrato innella camera e quine trovato la mensa posta e ben fornita, mangiò e poi si misse un pane in busteccoro, dicendo: «Se io andasse in luogo che io stesse troppo, voglio questo pane e mangeròlo».

Ito a dormire, la mattina venuta, innella chiesa inagiore apparecchiato una sedia e banche, là u’ ser Martino dovea disputare della Trinità; levatosi ser Martino col pane a lato, lo prefetto venuto in sala e fatto venire ser Martino, disceso la scala alla chiesa n’andarono, là u’ ser Martino vidde molte persone e smarrito non sapea che farsi. Giunto il prefetto, fe’ montare ser Martino in catreda, e fatto fare silenzio a tutti, uno maestro in telogia cominciò a dire della Trinità, arguendoli altri incontra.

E stando ser Martino a vedere senza parlare, non intendendo alcuna cosa, fu per quello maestro in telogia chiuso il pugno in significazione che Dio tutto chiude in uno pugno. Ser Martino, [p. 92 modifica]che il pugno vede chiuso, pensando il minacciasse, alzò un dito quasi dicesse: «Se mi dai del pugno, io ti caverò l’occhio con questo dito». Vedendo il prefetto il dito di ser Martino, disse: «Veramente ser Martino dice vero che Dio col dito tutto sostiene».

Lo maestro in telogia, vedendo il dito di ser Martino, pensò dicesse: «Uno Dio». Alzò il dito, quasi dicesse che a lui caverò’ l’occhio con quello dito. <Ser Martino> alzòne due, quasi dicendo: «Et io a te con amendue». Lo prefetto disse: «Veramente ser Martino bene giudica, che uno è il Padre, un altro è lo Figliuolo». Lo maestro in telogia levò ii dita dicendo che ’l padre generò il Figliuolo. Ser Martino ciò vedendo, stimando che quello maestro dicesse che con que’ du’ diti li caverò’ amburi li occhi, levò tre dita dicendo fra sé: «Et io ti caverò li occhi e la corata con queste tre dita». Lo prefetto disse: «Maestro, tacete, che ser Martino ha asoluto la quistione, ch’è veramente che uno è il Padre; du’, Padre e Figliuolo; tre, Spirito Santo; e nondimeno, come vedete, ser Martino vel dimostrava innel primo tratto quando dimostrò uno solo Dio».

Taciuto il maestro in telogia che disputava della Trinità, si levò un altro filosafo che dicea il mondo esser fatto da Dio. E venendo dal principio della creazione del mondo fine al fare Eva et Adamo e l’altre cos’e’ pianeti, assimigliando il mondo esser fatto com’uno vuovo — e questo disse alto — , ser Martino, che niente avea inteso, udendo mentovare il vuovo, cavatosi il pane della busteccora, prendendolo in mano disse fra sé medesimo: «Se hai il vuovo, io hoe il pane». Il prefetto ciò vedendo disse: «Filosafo, ser Martino ha ditto il vero, ché Idio, oltra l’altre cose che fe’, fe’ il pane, del quale la natura umana se ne governa».

E per questo modo ser Martino fu onorato e messo in mezzo tra ’l prefetto e quelli maestri filosafi, dicendo fra sé il prefetto: «Costui è ’l più valoroso filosafo sia al mondo». E diliberò farli belli doni. Giunti a casa, ser Martino entrato innella sua camera e quine trovato da desnare, desnò. Lo prefetto, com’ebbe desnato, li fe’ presentare gran quantità di vagellamene d’ariento.

E dimorando alcuni dì col prefetto, un giorno di festa del mese di magio lo prefetto andando di fuori a spasso in uno prato a ca[p. 93 modifica]vallo e ser Martino con lui, divenne che correndo lo prefetto per lo prato, uno grillo si levò di terra. Lo prefetto quello prese con mano e vennesene a ser Martino dicendo: «Ser Martino, indivinate quello habbo in mano; se indivinate, sarete lo migliore filosafo del mondo, e se non indivinate, vi farò morire». Ser Martino, udendo <ciò che> il prefetto li avea messo innanti, lassando la materia, ricordandosi quando andava portando i matoni che il suo nome era Grillo, disse con gran paura: «Grillo, Grillo, alle cui mani se’ venuto a morire!» Lo prefetto, che uno grillo avea in mano, aperse la mano in presenzia de’ suoi baroni e disse: «Ser Martino, voi siete lo miglior filosofo del mondo, ché bene indivinaste!» Ser Martino disse: «Lodo Idio». E pensò dover ritornare, dicendo: «Costui mi potrò’ giungere a uno punto che io morrei».

E tornati a casa, prendendo licenzia dicendo: «Io avea li miei fatti lassati in abandono»; e per volerlo servire si mosse, e che li piacesse licenziarlo e se altra volta lo volesse, tornerò’; lo prefetto, udendoli dire si eficaci ragioni, li donò fiorini v cento et alcuni cavalli.

Ser Martino, preso licenzia, con l’ariento e coi denari ritornò a Siena né mai per la paura volse più essere notaio, ma come contadino volse poi vivere, prendendo moglie.

Ex.º xvi.