Novelle Ukraìne/Nicola Gogol

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Nicola Gogol

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Nikolaj Vasil'evič Gogol' - Novelle Ukraìne (XIX secolo)
Traduzione dal russo di Ascanio Forti (1903)
Nicola Gogol
Novelle Ukraìne La fiera di Sorocinzi
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NICOLA GOGOL




«Egli versa la sua gajezza in certe
canzoni dove tremola sempre qualche
motivo malinconico.»

Gogol.


Nicola Gogol è fra i più grandi e imaginosi scrittori di tutti i popoli: il primo e maggiore umorista della Russia.

Nato nella Piccola Russia, là dov’è più meravigliosamente vegetante sotto il sole – nella steppa Ukraina – parve aver aspirato nell’anima, con la bellezza e la freschezza delle cose che gli stavano attorno, lo sconforto e la malinconia di quelle lande sterminate. In estate l’Ukraina sembra un paese d’oriente: piena di vegetazione; di vocìi d’uccelli, di occhi di fanciulle, di leggende fantastiche, di canti eroici: soleggiata, pervasa da onde di aria calda, prolificante d’insetti multicolori: – afa, oro, verde, azzurro, sole; ma tutto ciò nella desolazione dei gran piani sconfinati. Bruscamente l’inverno – la morte nel pieno rigoglìo della vita – la irrigidisce coi ghiacci del Dnieper e coi rigori del freddo e la intristisce colla devastazione della campagna spoglia di verde.

Quivi le prime infantili impressioni del giovine Nicola furono l’estasi della luce, la voluttà del [p. 4 modifica]sole. Aveva ereditato il sangue sveglio della sua famiglia di cosacchi, di quei cavalieri erranti della steppa, che passano con strana voltabilità dalle efferatezze e asprezze della guerra e del tempo, alle dolcezze del sentimento, ai sogni dell’imaginazione.

Ebbe dunque dal suolo natìo e dalla famiglia i maggiori benefizî dell’anima e del corpo.

Nacque nel 1809 a Sorocinzi, presso Poltava, in una casa piena di libri che il padre, caldo estimatore e coltivatore delle lettere, comprava e leggeva.

Da fanciullo restava estatico alle narrazioni del nonno, nei cui discorsi passavano gli usi e le costumanze del buon tempo antico, le gesta avventurose dei cosacchi Zaporogues e dei briganti della steppa, le lunghe guerre di desolazione e di sterminio sostenute dalla povera Polonia, le paurose scene fantastiche: tutte cose che lo facevano rimanere assorto nel pensiero e gli popolavano i sogni di paure e di apparizioni.

Il padre gli sbriciolava i primi bocconcini del sapere e gli acuiva l’osservazione col mostrargli e fargli ripetere sulle scene di un teatrino di famiglia la mimica, i gesti e le parole di vari tipi presi dal vero.

Dodicenne fu mandato a un ginnasio di Niégin. Quivi pare si distinguesse come negligentissimo scolaro, ma vaghissimo compagno, che oltre a deliziar sè stesso, satireggiando a danno degli amici, rallegrava gli altri con le sue sempre nuove e sempre varie invenzioni spiritose. Appassionato lettore di tutto quel che gli capitava sotto gli occhî, odiava d’un implacabile odio catilinario ogni studio in generale, e in particolare le matematiche e le lingue moderne: coltivava il disegno con assai diletto e profitto. [p. 5 modifica]

Coi denari d’una pubblica sottoscrizione ideò e fondò una specie di biblioteca circolante, di cui si creò sopraintendente: fondò pure un teatrino, in cui si rappresentavano o si diffamavano Kotzebue, Florian, Molière, Von Vizine, ecc. Infine gli saltò in testa di fondare una rivista, o meglio, di crearla interamente da sè: dalla testata, che disegnò con minuziosa cura, lavorandovi giorno e notte, al testo composto di una tragedia, di scritti satirici e umoristici e di certi sciagurati versi byroniani, che girarono con pieno successo fra gli amici: a tutto ciò impose il nome di Stella.

Del resto, tuttochè di latino sapesse appena tradurre il primo paragrafo d’una Crestomazia (universus mundus plerumque distribuitur in duas partes: cœlum et terram), donde il nomignolo di universus mundus, applicatogli dai colpiti dalla sua fine sferza satirica, era amato dai compagni e dai professori, poichè nel mortorio scolastico egli riusciva a comunicare il suo entusiasmo e il suo schietto riso.

Nel ’28 uscì dal ginnasio, leggiero assai di sapere, ma rigurgitante d’idealismi grandiosi e di ambizioni smodate. Le lettere che in questo periodo mandò alla madre testimoniano dell’influsso che ebbe su di lui la moda byroniana (che in quel tempo infieriva in Europa, e in Russia faceva addirittura strage).

In esse si credeva procreato a grandi cose e vedeva un angelo inviato da Dio, che gl’indicava non so più qual meta sospirata: qualche altra volta si doleva della sua sconvolta e amareggiata giovinezza, si credeva disconosciuto da tutti, o peggio ancora vilipeso e sopraffatto, e prendeva l’impostatura di un Cristo paziente e buono, in faccia alla viltà e meschinità altrui.

Era la moda byroniana che passava, e in lui [p. 6 modifica]passò presto: bastò un bagno freddo nella realtà a guarirlo.

Un anno dopo andò a Pietroburgo, con la speranza di vedersi offerta qualche alta carica negli impieghi governativi, ma per tutto si vide rigettato per insufficienza di titoli. Provò quanto sia duro il noviziato della realtà e quanto sia penosa la ricerca del pane. Si consolava ogni sera raccontando le vicende del passato felice a un compagno di sventura, con cui scompartiva una cameruccia di uno dei subborghi più oscuri. Un giorno, col denaro che la madre gli aveva mandato per prosciogliere la casa paterna da un’ipoteca, spensieratamente, s’imbarca in un battello senza saperne la direzione, sbarca a Lubeck, vagabonda per alcuni giorni, finisce i quattrini e se ne torna a Pietroburgo colla testa meno calda, pentito e deciso a tutto rimediare.

Qualche tempo dipoi, dopo intercessioni e raccomandazioni, potè ottenere un posto di spedizioniere al ministero degli appannaggi. Quivi, fra una copia e un’altra della prosa del capo divisione, gli si delineavano netti quei graziosi quadretti della vita burocratica, dalla quale era torturato, e che poi torturò a sangue colla più terribile arma inquisitoria: col ridicolo. Date le sue dimissioni, volle fare l’attore drammatico: non fu accettato per scarsità di voce. Fu precettore nelle più nobili famiglie dell’aristocrazia, Vassilcikoff e Balabin, e frattanto fece serî studî di lingua e letteratura russa. Frutto di tali studî furono i suoi primi timidi saggi che pubblicò su riviste, col pseudonimo di Han Kuchel Garten, che ebbero i morsi del gran critico Polevoi, dei quali lo compensarono gli entusiastici apprezzamenti del Puskin. Il quale gli era divenuto fratello più che amico e amava riverberare su lui, come su [p. 7 modifica]tutti i giovani volonterosi, un raggio della sua bontà e del suo ingegno.

Dietro i consigli del nuovo grande amico pubblicò le Serate in una fattoria presso Dikanka, cui tennero dietro nel ’34 il Tarass Boulba e gli altri Racconti di Mirgorod.

Tali scritti e la benevolenza degli amici gli valsero una cattedra di storia nell’università di Pietroburgo. Stupì l’uditorio con una focosa, eloquente, poetica prolusione; nelle altre lezioni scarseggiarono i momenti d’entusiasmo, tantochè accorgendosi d’annojare i discepoli e annojandosi egli stesso, dette tosto le sue dimissioni.

E nel ’35, dopo avere assaggiato di tutto e di tutto aver avuto disgusto, si volse alle lettere. Pubblicò una raccolta di novelle: Arabeschi, e una commedia: Il Revisore, che fecero celebre il nome di Gogol in ogni angolo della Russia.

Anzi la rappresentazione del Revisore, in cui l’asinità patentata e il marciume della burocrazia erano rivelati con impareggiabile forza comica, eccitò la critica ad aizzarglisi contro; e tanto fu umiliato e amareggiato dagli urli e dalle proteste di chi credeva ravvisarsi fra i colpiti, che scriveva:

«Tutti mi si son levati contro... Io sono sfinito nell’anima e nel corpo: nessuno imagina quanto io soffra. Oh! stiano pure tutti in pace. Sono io il primo ad aver nausea della mia commedia.» Sentendo poi che anche i suoi concittadini lo avevano biasimato, si esasperò tanto, che partì per l’estero.

E si distrasse viaggiando per l’Europa e fermandosi spesso a Roma, il cui clima si confaceva per la sua declinante salute.

Intendeva di comporre le sue forze fisiche e morali per una grande opera, che avrebbe dovuto [p. 8 modifica]portare il nome suo e l’imagine della Russia fra le genti.

E tra il ’38 e il ’42 compose le Anime morte, che suscitarono nuove invettive e nuove ire. Questa volta disanimato completamente si pentì del libro pubblicato e meditò la penitenza. A Roma aveva stretto intimità con un pittore connazionale, che lavorava da più anni, incontentabilmente, ad un quadro di soggetto sacro, presso un convento di certosini.

Impressionabile e sognatore com’era s’appassionò alle sue mistiche conversazioni e si volse a studiare il problema religioso. Rinnegò i passati libri e fece pubblicare alcune lettere filosofiche, che, fra l’altre cose, favorivano l’autocrazia, esaltavano i popi e il governo russo e legittimavano la schiavitù e l’ignoranza. Tali lettere finirono di alienargli i pochi amici, fra i quali il più caro, Bielinski, che lo redarguì amaramente.

Irato, distrusse altri lavori, fra i quali il seguito dei capitoli delle Anime morte e nel ’48 andò in pellegrinaggio a Gerusalemme e nei luoghi santi. Tornò in patria infervorato ed esaltato ancora più negli eccessi mistici e trasse gli ultimi giorni nell’indigenza e nella solitudine a Mosca, ospitato dai Tolstoi.

All’antica gajezza si erano sostituiti gli accascianti timori della vita futura; e gli assalti del tifo che gli dava allucinazioni, gli presagivano prossima morte.

La quale venne pure col 21 febbrajo del 1852 mentre il vento uralico gli portava i sospiri della patria, gli aneliti degli oppressi e i plausi dei rivendicati. Al trasporto assisteva una gran folla di amici e di buoni, che avevano dimenticato gli ultimi rovinosi suoi scritti, e accompagnavano al sepolcro l’autore di tante opere letterarie che erano insieme azioni umanitarie. [p. 9 modifica]

Il carattere peculiare della sua opera di scrittore è un umorismo bonario, una così mite ironia, che pare pietà e commiserazione ed è invece il sorriso di chi soffre veracemente della miseria e della viltà altrui. Il suo umorismo non è nè il motto ridanciano tonico-digestivo del Rabelais, nè il sorriso lacrimoso e passionato dell’Heine, nè la malignità ghignante del Thackeray.

Dalle prime sue novelle (Dikanka e Mirgorod) emerge come in nessun’altra opera quell’angolo della Piccola Russia con tutte le sue tradizioni e costumanze, con tutti quei tipi così squisitamente intuiti e delineati, che ci sembra di averli veduti e uditi non ricordiamo dove. Quelle gaje giornate luminose, quelle serene notti fosforescenti di stelle, quelle vergini bianche dagli occhi chiari e ingenui, quelle faccie aduste dagli occhi scavati ci s’imprimono tanto in mente, che non le dimentichiamo più.

Tre elementi predominano nelle prime novelle: il gajo, il fantastico, il malinconico. Ride e fa ridere d’un buon riso contagioso, che spalanca la bocca e fa sereno lo spirito, quando annoda e svolge i più comici intrighi, con una rude lingua dialettale, piena di soavi scorci di stile e d’imagini gioconde: – diviene fantastico quando una polla, una lieve vena di poesia popolare, lo trae a raccontare strane avventure di mondi occulti, scene terrificanti di gnomi o di diavoli: – è malinconico quando rivede e rivela il dolce paese, che gli ha dato la vita, allora la sua lingua si affina, acquista la suasività del ritmo poetico: pare che egli intraveda il suo paese di sogno, attra[p. 10 modifica]verso alle lacrime nostalgiche che gli velano gli occhi.

In quelle prime novelle, ebrei, cosacchi, mercanti, impiegati, diavoli, giovinastri avventurosi e ragazze vispe, suocere turbolenti e preti, figure di ubriachi, paurosi, spavaldi, rissosi, bugiardi, passano, ripassano, si corrono dietro, si confondono, compiono tutte le funzioni della vita.

In Tarass Boulba siamo testimonî alle gesta di quei turbolenti spiriti, sempre in lotta con tutti, che sono i cosacchi Zaporogues, personificati in Tarass, il cui elemento naturale è la guerra, la cui sola legge è la spada, e l’unico desiderio la morte sul campo. È questa l’unica vera epopea in prosa, secondo il giudizio del Guizot, del tempo nostro: epopea in cui fra un barbaglio di descrizioni vive sceneggiano gli eroismi, le efferatezze feroci, le guerre sterminatrici, le tragiche morti.

Da ora in poi l’opera del Gogol si fa diversa: sembra lo attragga la miseria e l’imbecillità umana sotto ogni forma. Negli Arabeschi il suo umorismo fa quasi contrarre la bocca al pianto, trattando la depravazione della vita pubblica e privata fra il ’30 e il ’40. La commedia il Revisore pare una farsa o una parodia esagerata ed è invece la veritiera rappresentazione dei tipi e dei costumi burocratici di quel decennio. Nelle Memorie d’un pazzo narra le sofferenze d’un impiegato impazzito, che nel delirio dell’allucinazione crede d’essere il Re di Spagna e dice sanguinose verità sugli uomini.

Nel Mantello narra un brano di vita di un altro impiegato, incretinito fra il suo mondo di copioni e di circolari, che a furia di stenti perviene a conseguire il suo sogno: possedere un mantello nuovo. Nel giorno stesso in cui l’ha comprato, per un’ironia della sorte, gli vien rubato: la sua [p. 11 modifica]disperazione fa ridere gli agenti di questura e termina solamente con la sua morte, avvenuta poco dopo.

Ed eccoci alla sua opera capitale, che è insieme il primo saggio d’un vero e schietto romanzo nazionale russo, alle Anime morte, pensate in Russia, maturate nel suo viaggio in Europa, condotte a termine a Roma. La Russia fino allora non aveva avuto veri e originali romanzi, chè tali non erano certo quelli di Ismailof o di Zagoskine, specchî concavi in cui si riflettevano deformate le produzioni delle altre letterature europee. Quando in Europa due colossi strabiliavano il mondo, Dickens e Balzac, e in Russia grandeggiava la figura del Puskin, sorse l’opera del Gogol.

A quel tempo in Russia i servi maschi facevano parte del patrimonio del padrone, che li teneva sottoposti pagando per essi un’imposta di ricchezza mobile. Nel lungo spazio di tempo fra un censimento e un altro, molti di questi servi computati nel linguaggio economico come anime, morivano, ma nei registri rimanevano come viventi e i rispettivi proprietarî erano obbligati a pagare la stessa tassa. Al Gogol balzò in mente l’idea di creare un Cicikoff, cavaliere d’industria, di farlo apparire fra una ciurma d’intriganti, di bricconi, di vili, d’incoscienti, di asini patentati, di burocratici corrotti, in cerca di anime morte, per cederle come vive sotto ipoteca alla banca del Lombardo e ritrarne duecentomila rubli per fare il signore. Questa, nelle linee generali, la tela del romanzo.

Quel che in esso, sotto il sorriso pacato, costituisce il più tremendo assalto, la più sanguinosa irrisione alla vita russa corrotta e corruttrice, sono quelle osservazioni, che qualche volta s’intravedono appena fra quegli sprazzi di vita, e che fecero esclamare al Puskin: «Oh! che miserevole paese è la nostra Russia.» [p. 12 modifica] Questo romanzo fece meditare e ricercare la causa di tanta tristezza, e fu gran cosa nella storia delle idee se pervenne a preparare e a promuovere il movimento in favore dell’abolizione della schiavitù, secondato e coronato nel 1861 da Alessandro II, il quale ne fu compensato da una bomba che lo uccise.

Non ostante che il Gogol soffra cacciando le mani in tante piaghe, e gema e scoppii in pianto, pure le Anime morte è uno dei più comici libri del mondo, degno di comparire a lato del Candido di Voltaire, del Don Chisciotte del Cervantes e del Viaggio di Yorick di Sterne. Leggendolo si sorride, si compiange, si ama anche, ma non si odia mai.

Ascanio Forti.


Da Firenze, il 1.º gennaio 1903.