Operette morali/Detti memorabili di Filippo Ottonieri/Capitolo sesto

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Detti memorabili di Filippo Ottonieri
Capitolo sesto

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Detti memorabili di Filippo Ottonieri
Capitolo sesto
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Usava di farsi leggere quando un libro quando un altro, per lo più di scrittore antico; e interponeva alla lettura qualche suo detto, e quasi annotazioncella a voce, sopra questo o quel passo, di mano in mano. Udendo leggere nelle Vite dei filosofi scritte da Diogene Laerzio1, che interrogato Chilone in che differiscano gli addottrinati dagl’indotti, rispose che nelle buone speranze; disse: oggi e tutto l’opposto; perché gl’ignoranti sperano, e i conoscenti non isperano cosa alcuna.

Similmente, leggendosi nelle dette Vite2 come Socrate affermava essere al mondo un solo bene, e questo essere la scienza; e un solo male, e questo essere l’ignoranza; disse: della scienza e dell’ignoranza antica non so; ma oggi io volgerei questo detto al contrario.

Nello stesso libro3 riportandosi questo dogma della setta degli Egesiaci: il sapiente, che che egli si faccia, farà ogni cosa a suo beneficio proprio; disse: se tutti quelli che procedono in questo modo sono filosofi, oramai venga Platone, e riduca ad atto la sua repubblica in tutto il mondo civile.

Commendava molto una sentenza di Bione boristenite, posta dal medesimo Laerzio4; che i più travagliati di tutti, sono quelli che cercano le maggiori felicità. E soggiungeva che, all’incontro, i più beati sono quelli che più si possono e sogliono pascere delle minime, e anco da poi che sono passate, rivolgerle e assaporarle a bell’agio colla memoria.

Recava alle varie età delle nazioni civili quel verso greco che suona: i giovani fanno, i mezzani consultano, i vecchi desiderano; dicendo che in vero non rimane all’età presente altro che desiderio.

A un passo di Plutarco5, che e trasportato da Marcello Adriani giovane in queste parole: molto meno arieno ancora gli Spartani patito l’insolenza e buffonerie di Stratocle: il quale avendo persuaso il popolo (ciò furono gli Ateniesi) a sacrificare come vincitore; che poi, sentito il vero della rotta, si sdegnava; disse: qual ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa ed in gioia per ispazio di tre giorni? soggiunse l’Ottonieri: il simile si potrebbe rispondere molto convenientemente a quelli che si dolgono della natura, gravandosi che ella, per quanto è in sé, tenga celato a ciascuno il vero, e coperto con molte apparenze vane, ma belle e dilettevoli: che ingiuria vi fa ella a tenervi lieti per tre o quattro giorni? E in altra occasione disse, potersi appropriare alla nostra specie universalmente, avendo rispetto agli errori naturali dell’uomo, quello che del fanciullo ridotto ingannevolmente a prendere la medicina, dice il Tasso: e da l’inganno suo vita riceve.

Nei Paradossi di Cicerone6 essendogli letto un luogo, che in volgare si ridurrebbe come segue: forse le voluttà fanno la persona migliore o più lodevole? e hacci per avventura alcuno che del goderle si magnifici o pavoneggi? disse: caro Cicerone, che i moderni divengano per la voluttà o migliori o più lodevoli, non ardisco dire; ma più lodati, sì bene. Anzi hai da sapere che oggi questo solo cammino di lode si propongono e seguono quasi tutti i giovani; cioè quello che mena per le voluttà. Delle quali non pure si vantano, ottenendole, e ne fanno infinite novelle cogli amici e cogli strani, con chi vuole e con chi non vorrebbe udire; ma oltre di ciò, moltissime ne appetiscono e ne procacciano, non come voluttà, ma come cagione di lode e di fama, e come materia da gloriarsi; moltissime eziandio se ne attribuiscono o non ottenute, o anco pure non cercate, o finte del tutto.

Notava nell’istoria che scrisse Arriano delle imprese di Alessandro Magno7, che alla giornata dell’Isso, Dario collocò i soldati mercenari greci nella fronte dell’esercito, e Alessandro i suoi mercenari pur greci alle spalle; e stimava che da questa circostanza sola senza più, si fosse potuto antivedere il successo della battaglia.

Non riprendeva, anzi lodava ed amava, che gli scrittori ragionassero molto di se medesimi: perché diceva che in questo, sono quasi sempre e quasi tutti eloquenti, e hanno per l’ordinario lo stile buono e convenevole, eziandio contro il consueto o del tempo, o della nazione, o proprio loro. E ciò non essere maraviglia; poiché quelli che scrivono delle cose proprie, hanno l’animo fortemente preso e occupato dalla materia; non mancano mai né di pensieri né di affetti nati da essa materia e nell’animo loro stesso, non trasportati di altri luoghi, né bevuti da altre fonti, né comuni e triti; e con facilità si astengono dagli ornamenti frivoli in sé, o che non fanno a proposito, dalle grazie e dalle bellezze false, o che hanno più di apparenza che di sostanza, dall’affettazione, e da tutto quello che è fuori del naturale. Ed essere falsissimo che i lettori ordinariamente si curino poco di quello che gli scrittori dicono di se medesimi: prima, perché tutto quello che veramente e pensato e sentito dallo scrittore stesso, e detto con modo naturale e acconcio, genera attenzione, e fa effetto; poi, perché in nessun modo si rappresentano o discorrono con maggior verità ed efficacia le cose altrui, che favellando delle proprie: atteso che tutti gli uomini si rassomigliano tra loro, sì nelle qualità naturali, e sì negli accidenti, in quel che dipende dalla sorte; e che le cose umane, a considerarle in se stesso, si veggono molto meglio e con maggior sentimento che negli altri. In confermazione dei quali pensieri adduceva, tra le altre cose, l’aringa di Demostene per la Corona, dove l’oratore parlando di sé continuamente, vince se medesimo di eloquenza: e Cicerone, al quale, il più delle volte, dove tocca le cose proprie, vien fatto altrettanto: il che si vede in particolare nella Miloniana, tutta maravigliosa, ma nel fine maravigliosissima, dove l’oratore introduce se stesso. Come similmente bellissimo ed eloquentissimo nelle orazioni del Bossuet sopra tutti gli altri luoghi, è quello dove chiudendo le lodi del Principe di Condé, il dicitore fa menzione della sua propria vecchiezza e vicina morte. Degli scritti di Giuliano imperatore, che in tutti gli altri è sofista, e spesso non tollerabile, il più giudizioso e più lodevole è la diceria che s’intitola Misopogone, cioè contro alla barba; dove risponde ai motti e alle maldicenze di quelli di Antiochia contro di lui. Nella quale operetta, lasciando degli altri pregi, egli non è molto inferiore a Luciano né di grazia comica, né di copia, acutezza e vivacità di sali; laddove in quella dei Cesari, pure imitativa di Luciano, è sgraziato, povero di facezie, ed oltre alla povertà, debole e quasi insulso. Tra gl’Italiani, che per altro sono quasi privi di scritture eloquenti, l’apologia che Lorenzino de' Medici scrisse per giustificazione propria, è un esempio di eloquenza grande e perfetta da ogni parte; e Torquato Tasso ancora è non di rado eloquente nelle altre prose, dove parla molto di se stesso, e quasi sempre eloquentissimo nelle lettere, dove non ragiona, si può dire, se non de’ suoi propri casi.

Note

  1. Lib. 1, segm. 69.
  2. Lib. 2, segm. 31.
  3. Ibid. segm. 95.
  4. Lib. 4, segm. 48.
  5. Præcept. gerend. reipub. opp. tom. 2, p. 709 et seq.
  6. Parad. 1 in fine.
  7. Lib. 2, cap. 8, sect. 9; c. 9, sect. 5.