Operette morali/Il Parini, ovvero Della Gloria/Capitolo terzo

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Il Parini, ovvero Della Gloria
Capitolo terzo

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Il Parini, ovvero Della Gloria
Capitolo terzo
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Si è veduto già quanto pochi avranno facoltà di ammirarti quando sarai giunto a quell’eccellenza che ti proponi Ora avverti che più d’un impedimento si può frapporre anco a questi pochi, che non facciano degno concetto del tuo valore, benché ne veggano i segni. Non è dubbio alcuno, che gli scritti eloquenti o poetici, di qualsivoglia sorta, non tanto si giudicano dalle loro qualità in se medesime, quanto dall’effetto che essi fanno nell’animo di chi legge. In modo che il lettore nel farne giudizio, li considera più, per così dire, in se proprio, che in loro stessi. Di qui nasce, che gli uomini naturalmente tardi e freddi di cuore e d’immaginazione, ancorché dotati di buon discorso, di molto acume d’ingegno, e di dottrina non mediocre, sono quasi al tutto inabili a sentenziare convenientemente sopra tali scritti; non potendo in parte alcuna immedesimare l’animo proprio con quello dello scrittore; e ordinariamente dentro di sé li disprezzano; perché leggendoli, e conoscendoli ancora per famosissimi, non iscuoprono la causa della loro fama; come quelli a cui non perviene da lettura tale alcun moto, alcun’immagine, e quindi alcun diletto notabile. Ora, a quegli stessi che da natura sono disposti e pronti a ricevere e a rinnovellare in sé qualunque immagine o affetto saputo acconciamente esprimere dagli scrittori, intervengono moltissimi tempi di freddezza, noncuranza, languidezza d’animo, impenetrabilità, e disposizione tale, che, mentre dura, li rende o conformi o simili agli altri detti dianzi; e ciò per diversissime cause, intrinseche o estrinseche, appartenenti allo spirito o al corpo, transitorie o durevoli. In questi cotali tempi, niuno, se ben fosse per altro uno scrittore sommo, è buon giudice degli scritti che hanno a muovere il cuore o l’immaginativa. Lascio la sazietà dei diletti provati poco prima in altre letture tali; e le passioni, più o meno forti, che sopravvengono ad ora ad ora; le quali bene spesso tenendo in gran parte occupato l’animo, non lasciano luogo ai movimenti che in altra occasione vi sarebbero eccitati dalle cose lette. Così, per le stesse o simili cause, spesse volte veggiamo che quei medesimi luoghi, quegli spettacoli naturali o di qualsivoglia genere, quelle musiche, e cento sì fatte cose, che in altri tempi ci commossero, o sarebbero state atte a commuoverci se le avessimo vedute o udite; ora vedendole e ascoltandole, non ci commuovono punto, né ci dilettano; e non perciò sono men belle o meno efficaci in sé, che fossero allora.

Ma quando, per qualunque delle dette cagioni, l’uomo è mal disposto agli effetti dell’eloquenza e della poesia, non lascia egli nondimeno né differisce il far giudizio dei libri attenenti all’un genere o all’altro, che gli accade di leggere allora la prima volta. A me interviene non di rado di ripigliare nelle mani Omero o Cicerone o il Petrarca, e non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo. Tuttavia, come già consapevole e certo della bontà di scrittori tali, sì per la fama antica e sì per l’esperienza delle dolcezze cagionatemi da loro altre volte; non fo per quella presente insipidezza, alcun pensiero contrario alla loro lode. Ma negli scritti che si leggono la prima volta, e che per essere nuovi, non hanno ancora potuto levare il grido, o confermarselo in guisa, che non resti luogo a dubitare del loro pregio; niuna cosa vieta che il lettore, giudicandoli dall’effetto che fanno presentemente nell’animo proprio, ed esso animo non trovandosi in disposizione da ricevere i sentimenti e le immagini volute da chi scrisse, faccia piccolo concetto d’autori e d’opere eccellenti. Dal quale non è facile che egli si rimuova poi per altre letture degli stessi libri, fatte in migliori tempi: perché verisimilmente il tedio provato nella prima, lo sconforterà dalle altre; e in ogni modo, chi non sa quello che importino le prime impressioni, e l’essere preoccupato da un giudizio, quantunque falso?

Per lo contrario, trovansi gli animi alcune volte, per una o per altra cagione, in istato di mobilità, senso, vigore e caldezza tale, o talmente aperti e preparati, che seguono ogni menomo impulso della lettura, sentono vivamente ogni leggero tocco, e coll’occasione di ciò che leggono, creano in sé mille moti e mille immaginazioni, errando talora in un delirio dolcissimo, e quasi rapiti fuori di sé. Da questo facilmente avviene, che guardando ai diletti avuti nella lettura, e confondendo gli effetti della virtù e della disposizione propria con quelli che si appartengono veramente al libro; restino presi di grande amore ed ammirazione verso quello, e ne facciano un concetto molto maggiore del giusto, anche preponendolo ad altri libri più degni, ma letti in congiuntura meno propizia. Vedi dunque a quanta incertezza è sottoposta la verità e la rettitudine dei giudizi, anche delle persone idonee, circa gli scritti e gl’ingegni altrui, tolta pure di mezzo qualunque malignità o favore. La quale incertezza è tale, che l’uomo discorda grandemente da se medesimo nell’estimazione di opere di valore uguale, ed anche di un’opera stessa, in diverse età della vita, in diversi casi, e fino in diverse ore di un giorno.