Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/295

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atto quinto 287

          Ti son pur servitor: ma sei un cert’uomo
          che non mi degni; o che tu m’abbia in odio,
          non so perché.
          Girifalco  T’ho in luogo di fratello.
          Pilastrino  Toccala qui. Vo’ che istasera facci:
          una bontá: che venga a cenar meco,
          se mi vuoi ben.
          Girifalco  Non posso.
          Pilastrino  Dissi bene
          che non mi degneresti. Non ci è peggio
          che essere, in questo mondo, pover’uomo;
          ch ’ognun ti fugge. Avrem di buon pipioni
          in colombaia; e buon vin ne le bótte;
          e ’l pan, se non è poi bianco a tuo modo,
          manda per esso a casa.
          Girifalco  S’io potessi,
          non mi aresti a pregare.
          Pilastrino  E dove ceni?
          Girifalco  A casa.
          Pilastrino  Vedi che tu mi rifiuti.
          Girifalco  Dimmi altro, se vuoi nulla.
          Pilastrino  Oh! Va’, ch’io voglio,
          ’per non cenar da me, venir teco io
          a casa tua.
          Girifalco  Perdonami. Non posso.
          Pilastrino  E perché questo? Oh! co! La cosa è guasta.
          Oh! che spilorcio!
          Girifalco  Ho forestieri a casa.
          Un’altra volta, poi.
          Pilastrino  Ed io che sono?
          Arei pensato aver luogo nel letto
          ove tu dormi. T’ho pure ancor fatto
          qualche piacer.
          Girifalco  No, no. Sono oratori
          de’ veniziani. Parti che sia onesto
          che venga a star fra lor?