Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/150

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142 il pedante


Prudenzio. M’aricomando alla loquacitá vostra.

Repetitore. Gran cosa che li uomini discreti e periti nelle lettere, e che hanno il cerebro ripieno di lucubrazioni e di prischi exempli, e nelli anni adolescentuli sieno stati discordanti alle blandizie e faci veneree e alle lascivie e crapule, in nella senectu fiunt bis pueri! Ma tedet mihi che ’l mio precettore urisca inelle viscere come arida stipula. Ma sera buono ch’io volti giú per questa viècula acciò che piú presto me espedisca da questo negozio.

SCENA IV

Curzio, Rufino, Ceca.


Curzio. Sollecitati, esci qui fuori. Giá son presso che tre ore e non sera se non buono ch’io me invíi pian piano in lá. Oh Amore! Guidami, non mi lasciar perire in si profundo pelago de incomparabile leticia; per ciò che, senza l’aiuto tuo, sono come fragile barca vicin’al porto da contrari venti combattuta. Per certo, ch’ai desiderio ch’io al presente me trovo, non pur una brevissima notte come fia questa ch’in somma felicitá trapassar aspetto, ma quella che Ercole produsse, o se ella fosse piú lunga che l’anno, una minima parte de l’ardor mio potrebbe estinguere. Costui tarda pur assai a venire. Oh Rufino!

Rufino. Eccomi, signore.

Curzio. Vieni presto, che l’è tardo.

Rufino. Or ora sarò da voi.

Curzio. Dch! camina; non tardar piú, de grazia.

Rufino. Eccome. Andiamo.

Curzio. Hai tu avertito colui che stanghi bene la porta?

Rufino. Signor si. Ma io saria de parere che voi me lassassivo ritornare, che non sta bene la casa sola.

Curzio. Sta ben pur troppo, che non stiamo in terra de ladri.

Rufino. Non è questo: ma la commoditá suol fare li uomini e le donne cattive.