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Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/355

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atto secondo 347


Isabella. E che cosa?

Lelia. Oh! Che? A ingannare il mio signore, che non sta però bene.

Isabella. Il malan che Dio gli dia! Crivello. Vatti po’ fida di bagasce! Ben gli sta. Non è maraveglia che ’l fegatello confortava il padrone a lasciar questo amore.

Scatizza. Ogni gallina ruspa a sé. In fine, tutte le donne son fatte a un modo.

Lelia. L’ora è giá tarda ed io ho da trovare il padrone. Rimanete in pace.

Isabella. Udite.

Crivello. Ohi! e due! Che ti si secchi, che ti faccia il mal prò!

Scatizza. Al corpo di Dio, che m’è infiata una gamba che par che la voglia recere.

Lelia. Serrate. Addio.

Isabella. Mi vi dono.

Lelia. Son vostro. Io ho, da un canto, la piú bella pastura del mondo di costei che si crede pur ch’io sia maschio; dall’altro, vorrei uscir di questa briga e non so come mi fare. Veggio che costei è giá venuta al bacio; e verrá, la prima volta, piú avanti; e trovarommi aver perduta ogni cosa: tal che forza è ch ’e’ si scuopra la ragia. Voglio andare a trovar Clemenzia di quanto gli par ch’io faccia. Ma ecco Flamminio.

Crivello. Scatizza, il padrone mi disse aspettarmi al banco de’ Porrini. Vo’ dargli questa buona nuova. Caso non mi creda, fa’ che non mi facci parer bugiardo.

Scatizza. Io non ti posso mancare. Ma, facendo a mio modo, te ne starai queto e arai sempre questo calcio in gola a Fabio per poterlo far fare a tuo modo.

Crivello. Dico ch’io gli vo’ male, che m’ha rovinato.

Scatizza. Governatene come ti piace.