Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/154

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ATTO II

SCENA I

Cesare solo.

E’ non è cosa al mondo, che dalla sorte proceda, della quale gli uomini si possin più dolere che quando ella dà de’ sua beni a chi non gli merita: come dire, ricchezze, figliuoli, sanità, bellezze e simil cose. Imperò che, prima, l’offende quelli che li meritano e, in caso che ancora a loro ne dia, il paragone non li lassa lor parer buoni. E cosi li uomini, veggendo che dai tristi ai buoni la fortuna non fa differenzia, non si curano di cultivare ed ornare l’animo loro; ma, inchinati ove naturalmente el senso li tira, cioè al male, si precipitano: onde accade che pochi se ne truovano de’ buoni, assai de’ tristi. E di qui si metton li stolti a negare la providenzia di Dio, dicendo che, s’egli avessi providenzia e iustizia insieme, non comporterebbe mai che certi, che ne son indegni, abondassino di tanti beni e certi altri, che li meritano, ne mancassino. E, benché io sia altrimente resoluto, questa essere falsissima opinione, niente di manco, quando io considero quel mostro d’Aridosio di quanti beni gli 1 abonda, al quale di buona ragione avevono a mancare tutti, non posso fare non dubiti o almanco non mi dolga, tornando massimamente questo in mio preiudizio; perché lui è ricchissimo, sano e ha duoi figliuoli che son giovani molto dabbene ed una figliuola la quale, se l’amor non m’inganna, è la più bella e la più gentile, non dico di Lucca, ma d’Italia. Dall’altro canto, quale lui sia, se noi sapessi, lo intenderete. Egli è avaro, invidioso, ipocrito, superbo e dappoco, bugiardo, ladro, senza fede,