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262 lirici marinisti

     Con un sol guardo sbigottisce i cori,
e col piè tempestando il regio soglio
sveglia e desta del cor l’ire e i furori.
     Poi, sbuffando in parlar l’ira e l’orgoglio,
con un tuono di voce alto e spietato
fa palese il furor, noto l’orgoglio.
     — Or prendete Soemo — ei grida irato —
e innanzi agli occhi miei vo’ che l’infido,
pena debita a lui, resti svenato. —
     A pena di sua bocca esce tal grido,
ch’eseguito riman; scusa non giova
a Soemo apportar d’amico fido.
     Ciascun rabbino il suo parere approva;
muor l’infelice, e funestando il piano,
l’ira del suo signor rigido prova.
     Non s’acqueta perciò l’empio e inumano,
ma nel furor piú bolle e intorno gode
bruttar la reggia sua di sangue umano.
     Ma chi può dir la scelerata frode,
ch’incontro Marianna empia cognata
ordendo va col dispietato Erode?
     Miser chi di tal gente empia e mal nata
senz’amor, senza fede oggi si fida,
che palese t’accoglie, odia celata!
     Accusa l’innocente e afferma infida
come per dar la morte al regio sposo,
procurasse costei tòsco omicida.
     Fede le presta il barbaro sdegnoso,
da la furia acciecato e, dentro il petto,
da gelosia, senza trovar riposo.
     Chiama il senato a dar sentenze eletto;
vuol che la moglie si condanni a morte,
qual donna rea nel suo reale aspetto.
     Ecco in presenza di sua regia corte,
senza temer del tribunal giudeo,
furïosa compar l’alma consorte.