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giuseppe battista 439

     Le disse poi: — Tu meritavi, o bella,
d’aver meco nell’onde il tuo natale.
S’a me nella beltá rassembri eguale,
la mia conca era tua; tu, mia sorella. —
     Né pigre sono a ricettarla in seno
perché le tergan gli occhi allor che piagne,
della madre d’Amor le dee compagne,
le dee dell’Acidalio e d’Orcomeno.
     Ma se piangeano gli occhi, in su la fronte
iride di letizia apparve il riso;
dal labro, che in coralli era diviso,
tra i vagiti alitò mirre d’Oronte.
     Degli amori pennuti il coro arciero
esultò su la culla e sparse rose;
vibrò per l’aria i vanni, e poi dispose
su lo spazzo alle danze il piè leggiero.
     La fanciulla schiudea le due pupille
e nel cielo d’un viso eran due stelle;
compartivano allor calme o procelle,
quand’eran men turbate o men tranquille.
     Al nascer di costei, della sua Tai
obliò la beltá l’attica Atena,
e se Aulide non piú vantò Lacena,
Corinto, ch’ha duo mar, tacque di Lai.
     Crebbe con gli anni e crebbe seco ancora
quella beltá che bambinetta espresse;
dove col bianco piè vestigio impresse,
sul vestigio ridea piú d’una Flora.
     Scioglieva i suoi capelli ed eran lacci,
lacci per intrigar core ch’è sciolto;
e mentre svolazzavano sul volto,
libera fantasia stringeva impacci.
     Della cervice i palpitanti avori
godean di posseder quell’ambre intatte,
e della fronte il piú canuto latte
d’aver godeva in compagnia quegli ori.