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«Che guarda, signor padre? uscì a dire Margherita, che vispa com’era aveva gli occhi su tutto, e usava colle persone un ultimo avanzo di dimestichezza infantile.
«Io guardo, — rispondeva egli, trovando da maestro quel che gli bisognava, senza togliere l’occhio dalla bella vista in cui pareva assorto — io guardo quei comignoli laggiù del castello, e penso che darei un anno della mia vita, per poter vedere, non fosse che un’ora, il castello, i baroni, il popolo del borgo e tutte le cose, com’erano, per esempio, seicent’anni or sono...; quando le castellane vivevano da sante, e i cavalieri andavano e tornavano di Palestina, pieni di fede, carichi d’armi, a conquistare il Santo Sepolcro e il regno dei cieli...
«Oh!... e come si possono sapere codeste cose? — chiese Margherita, che sempre aveva preso diletto a farsi narrare favole e leggende.
«Dai libri, — rispose il padre Anacleto; — ma sono libri latini, che non tutti li sanno leggere...»
«Ci racconti qualcosa lei, ci racconti...» entrò a dire damigella Maria.
«Sì, sì — padre, racconti: — incalzava Margherita. Bianca taceva; ed egli con quell’aria che sanno pigliare anche i più volgari favolatori, cominciò a narrare.
«Fra i tanti fatti che si hanno dai libri di cui vi parlo, ne ricordo uno bellissimo, seguito proprio in quei tempi, che il nostro San Francesco capitò quassù a fondare il convento, dove noi siamo. Che felicità, nevvero, se vi fossimo stati anche noi? Ebbene, si diceva in quel tempo, che nelle montagne là verso il mare, (vedete? da quella parte dove si leva il sole in questa stagione); si diceva che in una rupe cavernosa avesse vissuto una famigliuola, di cui niuno sapeva bene come vi fosse venuta. Io quella caverna l’ho veduta, ed è su per giù dell’ampiezza di mezza questa sala. Abitavano là dentro marito e moglie, colla benedizione di due bei fanciulli: il padre lavorava a far carbone; la madre a filare lana