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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/122

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lxii
     Io vi ringrazio - umìle, allor risponde
Con somma riverenza il giovinetto, -
ma non bisogna aver l’esca d’altronde
Al focoso desio ch’io porto in petto
Di voi servire in fin che ’l ciel m’infonde
Dell’usata sua grazia all’intelletto,
E mentre ch’io potrò presso o lontano
Porre in opra per voi l’arme e la mano.
lxiii
     E dicendo così, d’un nuovo strale
Su la rigida corda pon la cocca,
Et a Meron drizzò ’l colpo mortale
Che gli venne a passar proprio alla bocca:
Indi spiega al cervel le pennate ale
Sì ben, che del destrier, lasso trabocca,
E la testa piegò pallido e smorto
Come tener papavero in chius’orto,
lxiv
     Che dalla folta pioggia nell’estate,
Quando il seme ha miglior, gravato sia.
Era costui di tenerella etate,
Nato in Avarco della vaga Elia
Cara a Clodasso, e che mille fiate
Già punse in dubbio cor di gelosia
Alla sua sposa Albina, che sentiva
Che troppo al suo parer cara veniva.
lxv
     Scocca un’altra saetta, e ’n mezzo il petto
Va sibilando al misero Ippodamo,
Ch’a cader va de’ suoi nel calle stretto
Come percosso uccel dal verde ramo.
Era esso Ibero, e nuovo duce eletto,
Onde il popol di lui grave richiamo
Al ciel facea, chè l’una e l’altra sponda
Par di lui non avea che ’l Beti inonda.
lxvi
     Doppo il costui morir, Merope appella
Che gli è sempre vicino, il suo scudiero,
Che gli adduca il cavallo; e monta in sella
Dicendo: Or sia chi vuol per oggi arciero,
Ch’io con altr’arme in man l’empia e rubella
Turba or voglio assalir da cavaliero:
E veggia ogni uom che chi di Gave nasce
D’ogni arme oprare e di virtù si pasce.
lxvii
     In tai parole sprona in quella parte
Ove il caro fratel Boorte scorse,
Che parea fra’ nemici il gallo Marte
Ove irata la man più in guerra porse.
Trova il Geta Iperoco, che ’n disparte
Lassando gli altri andar sopra lui corse,
E nel petto egualmente s’incontraro,
Ma fu l’un colpo più dell’altro amaro:
lxviii
     Perchè l’asta dell’altro in tronchi sale
Volando al ciel, senza lassare offesa;
Quella di Lionel fu micidiale,
Che sprezzando del ferro ogni difesa
Passò dove il polmon con tepide ale
Mantien l’aura vital nell’alma accesa;
E ’n terra se n’andò del mondo sciolto,
Ove fu in sen de’ suoi subito accolto.
lxix
     Indi col brando in man ritrova Opito,
D’Aleandro figliuol, che ricco nacque
Del nobil Taragone al basso lito,
Ove Teti di spuma imbianca l’acque:
E di sdegno d’amor s’era partito
Dalla vaga Serpilla, a cui non piacque
D’averlo sposo, ond’ei con aspra sorte,
Come allor ritrovò, cercava morte.
lxx
     Incontra il suo german detto Soceo,
Che in ogni sua fortuna gli fu appresso;
E d’un colpo alla fronte in morte il feo,
Come nel viver pria, compagno d’esso.
Poi d’altra patria il crudo Ilioneo,
Che d’Affrica il terren teneva oppresso
D’Atlante al mar, di sangue Visigoto,
D’orgoglio e di vigor fè nudo e vòto.
lxxi
     Ma mentre esso, il fratello e ’l pio Tristano,
Mostrando alto valor, battono a terra
Questo e quel duce illustre e capitano
E fan maravigliosa e cruda guerra;
Palamoro, Clodino e Dinadano
Di qua dal largo fosso, che gli serra
In sicurtà di lor, nell’altrui danno
Conducendo gran turba intorno vanno:
lxxii
     Sì che mal far riparo si potea,
Nè scacciar i nemici da quel lato
Che dritto in verso Avarco rispondea,
Che tutto pienamente era occupato.
Ma il saggio Maligante, che vedea
Di tutto il campo il periglioso stato,
Con infiniti carri utili a guerra
Attraversa il cammino e ’l passo serra.
lxxiii
     E mentre che Tristan tenendo a bada
Il furor che venìa saldo sostiene,
A nuovo fosso, che profondo vada
Quanto a sì breve tempo si conviene,
Fa che ’l popolo armato, il qual la spada
E la lancia e lo scudo a terra tiene,
Con gli agresti instrumenti si raccinga,
Sì che i carri di fuori intorno cinga:
lxxiv
     E con studio maggior ch’alla stagione
Che comincia a scaldarse il buon cultore
Alla pregiata vigna i villan pone
Per voltare il terren che troppo umore
Dona all’erbe crudei che son cagione
Che ’l dolce arbor di Bacco o langue, o muore,
Che pon vederse al rusticano assalto
Mille zappe lucenti andare in alto;
lxxv
     E tanto era lo stuol, che ’n tempo breve
Già potea la difesa esser sicura.
Chi la terra rompea, chi larga e greve
Gleba all’argin portar prende la cura,
Chi dispon bene il loco in cui si deve
Le guardie porre, in guisa d’alte mura,
Chi le porte disegna in dotte forme
Da spingere e ritrar de’ suoi le torme.