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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/13

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xxi
     Pur non di voi, che tutto invidia sète
E sposar bramavate Claudïana,
Mi vo’ doler, che fatta l’opra avete
Che far deve alma doppiamente insana;
Ben di voi sacro re, che ritenete
Di noi qui scettro e podestà sovrana,
Che, bench’a voi nipote, aggiate un tale
In onor quasi a voi medesmo eguale;
xxii
     E vogliate soffir che inanzi a voi
Possa a torto a i migliori oltraggio dire:.
Il peccare e ’l fallir de i servi suoi
Colpa è del re, s’ei non gli sa punire.
Non avria di parlar sì altero in noi,
Senza il vostro volere, avuto ardire;
Però ricorro a voi, non perch’io attenda
La vostra man ch’a vendicarne intenda:
xxiii
     Perchè, mentre ho la spada, anzi ho la vita
(chè senza quella ancor non manca il core),
Non cercherò d’alcun mortale aita
Per sollevare il mio battuto onore;
Ma sì vi prego io ben per l’infinita
Obbedïenza e per l’integro amore
Ch’io vi porto e portai che dir v’aggrade
S’io seguo al mio dever contrarie strade.
xxiv
     Così detto s’assise, e stato alquanto
Il re tacito in sè rispose appresso:
Io non potrei negar che ’l primo vanto,
Tra molti cavalier che mi son presso,
Della vera prodezza, ed altrettanto
D’amore, in voi non ritruovasi spesso;
Ma così altero in questo bello oprare
Che non potete aver signore o pare.
xxv
     Non niego io già che quel valor ch’è raro
Drittamente grandezza a i cori apporte;
Ma se ’l gran senno non vi fa riparo
In superba fierezza si trasporte,
Che d’ogni consiglier più amico e caro
A i prudenti sermon chiuggia le porte:
Tal ch’è virtù fra troppi vizi ascosa,
Come intra spine assai selvaggia rosa.
xxvi
     E come quella mostra che spavente
Chi coglier la vorria d’aspra puntura,
Così fa quella alla matura gente,
Che quel che giova e nuoce in sen misura.
Io debbo molto a voi, che veramente
Con sollecito cor prendeste cura
Quant’altro cavalier d’ogni mia guerra,
Non di qua men che nella nostra terra;
xxvii
     Ma s’anco io vi dicessi, mentirei,
Che non mi aveste in molte parti offeso
In render prima i due, poi render lei
Senza aver pure il mio volere inteso;
Il medesmo che voi fatto n’avrei,
Ma miglior modo e miglior tempo atteso,
Chè fra noi si potea di cosa tale
E sperare e temer gran bene o male.
xxviii
     Non il poco veder, ch’assai vedete
Quando vi piace ben le luci aprire,
Ma ’l dispregio di me, la troppa sete
Di troppo in alto e sovra me salire
Fur la cagion per cui voluto avete
Più ’l desio vostro che ragion seguire:
E far certo e palese a tutto il mondo
Che voi sete primiero, io son secondo.
xxix
     Ma per questo alto scettro che mi diede
Il re mio padre, Pandragone Utero,
Del quale egli era drittamente erede,
Succedendo al parente Vortimero
Che l’ebbe anch’ei nella medesma sede
Dal vechhio genitor suo Vertigero:
Per questo adunque a Lancilotto giuro
Ch’io farò sì ch’ei non sormonte Arturo;
xxx
     Ma ch’ei sommetta il collo al giogo istesso
Come fan quei, che sono eguali a lui,
Nè in oprar, nè in parlar gli sia concesso
In alcun modo d’oltraggiare altrui;
Intenda a governar piano, e rimesso
I guerrieri, i compagni, i cugin sui:
E s’ei si cangerà, cangerò anch’io
Secondo il suo volere, il voler mio.
xxxi
     Perchè s’ei fosse quel, ch’esser devrìa,
Non vorria dimostrar’ d’essere ingrato
Ch’oltra gli onor, ch’io gli avea fatti pria,
Che quasi al par di me l’aveva alzato;
Può ben saper, che questa guerra sia
Per rendergli il paese, onde spogliato
Dal perfido Clodasso fu il re Bano,
Che in esilio morì tristo, e lontano.
xxxii
     Il medesmo adivenne al re Boorte,
Che fratello onorato era del padre;
E lui picciol fanciul nell’aspra sorte
Nudrì Vivïana, tolto alla sua madre:
Poi il menò giovinetto alla mia corte,
Dopo tante tempeste oscure, ed adre:
Io ’l trattai come figlio; ed or di tutto,
Può giudicare ogni uom qual’esca frutto.
xxxiii
     Diceva ancor; ma riguardandol torto,
Qui l’interruppe irato Lancilotto:
Deh fuss’io già co’ miei parenti morto,
Pria che qui ritrovarmi a tal condotto;
Chè del mio bene oprar biasmo riporto,
E chi mi debbe alzar mi spinge sotto;
E son chiamato ingrato da colui,
Ch’a me dee molto, ed io niente a lui.
xxxiv
     E che sia ver, qui presso è Galealto,
Il forte re dell’isole lontane.
Che vi diede in Brettagna tale assalto,
Che le forze di voi rendea già vane:
Volse Dio, che ’l suo core egregio, ed alto,
Pregiò me sol fra l’altre genti strane;
E mi divenne amico sì verace,
Che volse a i preghi miei la vostra pace.