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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/132

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lxxxi
     E più non vi sovvien quante fiate
Il britannico re biasmaste meco
Di superbo parlar, di voglie ingrate
E ’nverso i merti miei d’animo bieco,
Ch’or tutta contra me l’ira voltate
Che in più dritta ragione avreste seco,
E dove esso accusar più si conviene,
Al mio soverchio mal giungete pene?
lxxxii
     E con più aperto cor rispondo a voi
Che de i promessi don nulla mi cale,
Ch’assai regni ed onori ho senza i suoi
Dalla bontà infinita ed immortale,
Mentr’ella lasserà lo spirto in noi
Senza torgli il veder nè troncar l’ale,
Che per grazia di lei tant’alto aspira
Che sì basso tesor quaggiù non mira.
lxxxiii
     Nè mi accresca il dolor, caro Lambego,
Il veder voi di me dolerse a torto;
E s’oltra l’uso mio questo vi nego,
Condannate d’altrui l’oltraggio scorto,
Secur, che ’l ciel, come devoto il prego,
Mi scorgerà il cammino a miglior porto,
E con onta di quello il nostro stuolo
Di periglio trarrà tosto e di duolo.
lxxxiv
     E per questo sperar, con lieto core
Di restar nel mio albergo disponete,
Ch’omai troppo per voi son tarde l’ore,
E ’n nido peregrino altrove sète.
Maligante e Boorte al lor signore
Porteran le risposte o triste o liete
Quali ordinò colui, che ’l tutto vede
E dov’è il suo voler n’addrizza il piede.
lxxxv
     Acconsente il buon vecchio, che disdetto
Al suo più che figliuol mai non farebbe.
Ma l’illustre Boorte, poi che in petto
Tutto il crudo parlare accolto s’ebbe,
Volto al compagno suo con fosco aspetto
Gli dicea: Maligante, se non debbe
Altra risposta farne Lancilotto,
Ritroviamo il cammin che n’ha condotto,
lxxxvi
     Dicendo a tutto l’oste del re Arturo
Che per l’ira d’un sol, che ’n sen riserba,
Nega ostinatamente fermo e duro
Di scampar molti suoi da morte acerba,
E d’espugnar di quella sede il muro
Ch’è di tanti suoi danni alta e superba,
E vedere il suo onor di luce casso
Pria che la mano armar contr’a Clodasso.
lxxxvii
     Ma pensate in fra voi che potrà dire,
O chiarissimo erede del re Bano,
Chi vedrà in voi poter le privat’ire
Più che ’l pubblico amor, che prega in vano;
E che ’ndarno soffriste i detti udire
Di tai due vostri amici e d’un germano
Che v’han sempre onorato con quel zelo
Che più sacro e maggior s’aspetta al cielo.
lxxxviii
     Nè vi sembri di cor lodata altezza
L’esser inesorabile all’offese,
Ch’a i più saggi parrà cruda fierezza,
Poi ch’al chieder mercede altri discese.
Qual fia padre già mai di tale asprezza
In cui l’unico figlio a morte stese
Che al fin per umiltà, per preghi e doni
Con generoso cor non gli perdoni?
lxxxix
     E voi, per breve suon di poche note
Ch’a sì famoso re dettò lo sdegno,
Delle voci pentite e ’n voi devote
Non tenete il pregar di pace degno:
E tale ogni ragion dal cuor vi scuote
Che ponendo in oblio la patria e ’l regno,
I suoi cari signori e gli altri in tutto,
Non vi cal di vedergli in morte o in lutto.
xc
     E so ben che di me l’antiche prove
Vi ponno assicurar che tema alcuna
Al ragionarvi tal nulla mi muove,
Nè il turbato voltar della fortuna:
Ch’altra aita non vo’ che ’n ciel da Giove
E da questa mia man sotto la luna;
Ma l’impero del re, l’altrui pietade
Mi fece al venir qui trovar le strade.
xci
     Con parlar dolce Lancilotto allora
Risponde: O mio chiarissimo germano
Nel cui buon cor tanta virtù dimora
Che d’ogni cavaliero il fa sovrano,
Ben conosch’io che forse alquanto fuora
Vo dal dritto cammin del corso umano,
Trasportato dall’ira, ch’oggi è tale
Che a ritenerle il fren nulla mi vale:
xcii
     Ma miracol non sia, che troppo pesa
All’anima gentil che gloria brama
Il sentirse da quello a torto offesa
Che qual sacro immortale onora ed ama:
Prendendo contro a lei per uom difesa
Che d’alto orgoglio sia, di bassa fama,
E scacciarse spregiando, come cosa
Inutile, vilissima e noiosa;
xciii
     Poi mandarla a chiamar, quando lo stringe
Il bisogno maggior, che vinto giace,
Con mille alte promesse che si finge
Per lei ingannar lo spirito fallace:
Come accorta nutrice che rispinge
Col mostrar dolci pomi a nuova pace
Fanciullo irato cui plorar fa lunge
Della verga il dolor ch’ancora il punge.
xciv
     Or, s’a grado vi fia, con Maligante
Al Britannico re direte ch’io
Non intendo di qui muover le piante,
S’altro non disporrà nel cielo Dio,
Se pria non veggia in orrido sembiante
Assalir Segurano il popol mio;
Ma ch’allor farò sì che a questo albergo
Vedrò quanti saran voltare il tergo.