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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/145

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xxiii
     Di color negro a i primi si comprende
Altr’ordine a fortezza ed ornamento.
Il sostegno onde al collo si sospende
Di falde fabbricato era d’argento,
Ove un fosco dragon s’avvolge e stende
Nè d’una fronte sola appar contento,
Ma con tre fere teste e d’ira pieno
Par minaccie a ciascun foco e veleno.
xxiv
     Del più gran re che d’Argo e di Micene
E d’altre alme città lo scettro tenne
Fu questo scudo, allor che d’armi piene
Con mille altere navi a Troia venne
Per darle al suo furar dovute pene;
E di dieci anni al termine pervenne
Col lungo assedio, e poi di chiara frode
Trionfante partìo, se ’l ver se n’ode.
xxv
     Ivi mentre era inteso al grande acquisto,
Che più volte cangiò fortuna e volto,
Ovunque il ciel gli fosse o lieto o tristo
Sempre si ritrovò di questo avvolto.
Ma nel rio letto dal crudele Egisto
E dalla sposa sua di vita sciolto,
Fu tra molti tesor da i servi suoi
Al fratel Menelao condotto poi;
xxvi
     Ch’allor divoto nell’antica Sparte,
Come il merto chiedea, con vero amore
Di Minerva al gran tempio in degna parte
Fece appender in alto: al cui valore
Che fu poi steso in sì divine carte,
Non volle il pio german far altro onore.
Scrisse sol d’Agamennone, il qual nome
Seco avea d’ogni lode eterne some.
xxvii
     Quando poi fu squarciato il fosco velo
Al veder nostro misero mortale
E l’alta grazia ne portò dal cielo
Il gran figliuol del Padre universale,
E dell’uom si converse il vero zelo
A quell’alto Fattor dal sen mortale
Che negli antichi templi intorno tutte
Fur le fallaci immagini distrutte,
xxviii
     Nel famoso Bisanzo a Costantino
Fu lo scudo possente allor mandato,
Ove il tenne in onor quasi divino
Col chiaro ricordar del tempo andato.
Poscia di prole in prole al gran Iustino,
Allora imperador, fu riservato,
Il qual, come di lui più d’altrui degno,
Ad Arturo il donò d’amore in segno.
xxix
     Questo adunque era quel ch’al collo intorno
Del suo gran re sovran pende Agraveno,
Nè in altra guisa il volle fare adorno
Che della riverenza ond’egli è pieno.
Solo in azzurro aurate d’ogni intorno
Di tredici corone ha colmo il seno,
Ch’ei non si possa dir ch’ascosa tegna
L’antica e famosissima sua insegna.
xxx
     Il grand’elmo alla fin, che doppia tiene
Del real viso in guardia la baviera,
Ove l’alto cimier montando viene
Che ’nseno ave del ciel l’ultima spera
Che sol le luci stabili contiene
E sempre dal mattin gira alla sera
Senza mai traviare e l’altre cinge,
Che dietro al corso suo di gir costringe;
xxxi
     Così questo Agraven d’intorno allaccia
Ove più la corazza monte in alto
Verso la gola, e sì che non l’impaccia
Al rivolger il volto ad ogni assalto,
Nè col soverchio peso assiso giaccia
Sopra la fronte l’incantato smalto:
E dir si potea tal, che di tempra era
Non men che l’adamante invitta e vera.
xxxii
     Poi di piastra d’acciar fino e sovrano,
Sol che ben rivoltare e stringer vaglia,
Difesa aggiunge all’una e l’altra mano
Non men dolce a piegar che lenta maglia,
E larga ove il braccial vien prossimano,
Ch’al nodo estremo suo sovr’esso saglia;
E poi che dritto è in sella e fermo ha il piede
La lancia impugna, ch’Agraven gli diede.
xxxiii
     Indi con bel drappel di cavalieri
Che già intorno gli son s’addrizza al vallo,
Ove schiere infinite di guerrieri
Truova attender pedestri ed a cavallo,
E i maggior duci lor, servando interi
Gli ordini, ch’al dever non faccian fallo;
Poi, che stan comandando su le porte,
Vede il franco Tristano e ’l pio Boorte,
xxxiv
     E de i levi destrier prime le torme
Da i lor capi condotte han tratte fuori;
Doppo questi gli arcieri stampan l’orme,
Con gli altri più spediti e frombatori:
Vengon poi quei che di più altere forme
Veston l’arme pesanti e le migliori.
Così tutti passati, ogni uomo attende
Quel che di comandargli Arturo intende;
xxxv
     Il qual tra i maggior duci e i primi eroi
Consigliando il futuro, avea varcato
Dopp’essi il fosso, e va scorrendo poi
Col buon re Lago e con Gaveno a lato,
Che nessun altro vuol di tutti i suoi
Per non mostrar di re l’altero stato:
E l’armate sue schiere guarda intorno,
Che più che forse mai fur belle il giorno;
xxxvi
     E chiamando di molti il proprio nome,
Che di parte maggior non gli era ascoso,
Dicea: Cari figliuoi, dimostriam come
Non è il nostro valor da tema roso,
E che per poco incarco non son dome
Le forze invitte al popol glorioso
Che della gran Brettagna ha sparso il grido
Sotto ambe i poli, e dell’aurora al nido.