Vai al contenuto

Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/15

Da Wikisource.

xlix
     Vinsemi veramente la bontade
Ch’or non ha certo, e mai non ebbe pare;
Per lui vi feci io don delle contrade
Vinte prima da’ miei nel vostro mare.
Quando dall’altra parte e in altre strade
Nuovo soggiunse e periglioso affare
De’ figliuoi di Clodasso già discesi,
E ch’avean molti fuochi intorno accesi,
l
     Con qual cor, con che amor, con quanto ardire
Si mosse allora il chiaro Lancilotto?
Ritenne i molti che volean fuggire,
Rimise insieme il vostro popol rotto;
Poi come tigre irata che rapire
Si veggia i figli corse a Camelotto,
Ch’era in man de i nemici e ben guardato,
E in men d’un mezzo dì l’ebbe espugnato.
li
     Non perdè tempo, che ’l medesmo giorno
Con sollecito passo ancor raggiunse
Gli eserciti nemici, che ritorno
Al mar facean per tema che gli punse:
Fè lor danno infinito e sommo scorno,
Quando non aspettato sopraggiunse;
Fèrsi l’onde vermiglie in un momento
E ’l ciel, la terra e ’l mar n’ebbe spavento.
lii
     Non cessò, ch’ei trovò l’alta regina,
La vostra nobilissima consorte,
Fatta per tema come neve o brina,
Che piangea lassa e disïava morte:
Così il buon duce e la virtù divina
La trasser quindi da sì amara sorte,
Ma un punto sol ch’e’ s’indugiava ancora
Era d’ogni speranza in tutto fuora:
liii
     Che già in braccio l’avean molti nocchieri
Per portarla dal lito al palischermo.
Ma più ch’e’ fosse mai pronto e leggieri
Fu Lancilotto, e lor non valse schermo;
Molti ne pose morti su’ sentieri,
Gli altri tutti non tennero il piè fermo:
Chi fugge in quella parte, chi s’asconde,
Chi s’attuffò come delfin nell’onde.
liv
     Co i legni de i nemici in questa parte,
Volando quasi, discendemmo allora;
E mentre a fabbricar governi e sarte
Stavate inteso nel passaggio ancora,
Vinse otto volte tra congiunte e sparte
Le genti avverse ch’ei trovò di fuora:
Acquistò più paesi, passi e terre
Che ’l miglior non faria con mille guerre.
lv
     Egli i monti spianò, largò le porte
E vi fece il cammin dritto e sicuro
Che poteste venir con poche scorte
Senza impaccio trovar di fosso o muro;
Non vi fu alcuno a contrastarvi forte
Se non Avarco, cui fa saldo e duro
Non gente nè vertù ch’ei chiugga in lui,
Ma il diviso voler che trova in vui.
lvi
     Fè che ’l gran re d’i Franchi v’ha mandato
Quattro suoi figli e ’l re Sicambro insieme,
Con sì fiorito stuolo e bene ornato
E d’armi e di destrier, ch’ogni uom ne teme:
Chè Lancilotto nel materno lato
Uscendo dal real francesco seme,
Han voluto mostrar che ciò gli invita
Di dare a voi contro a Clodasso aita.
lvii
     Or son questi però fatti e servigi
Che si possan così porre in oblio?
Che ne devreste doppo i fiumi stigi
Esser mai sempre conoscente e pio.
Che ne diran di voi gli uomini ligi?
Che i cavalieri strani, qual son io?
Che speranza avran quelli e questi come
Potran render onore al vostro nome?
lviii
     E se pur qui di noi nulla vi cale,
Non vi cal di Colui che tutto vede,
Che ristora e punisce il bene e ’l male
E da cui quanto abbiam nasce e procede?
Ogni impresa ritorna vana e frale
Quando l’ingratitudine è mercede;
Ciò ch’ei fa, ciò ch’ei pensa, a scorno e danno
Al fin gli torna, ed a perpetuo affanno.
lix
     Spogliate dunque omai l’ira novella
E rivestite in voi l’antico amore,
Mirate ben ch’a ciò seguir n’appella
Il profitto comune e ’l proprio onore:
Che se l’occasïon, ch’or bionda e bella
Vi presenta la chioma a tal favore,
Tornasse il volto disdegnosa altrove
In van poscia sarian l’umane prove.
lx
     Così diss’egli, e ’l buon re Lago il veglio,
Dell’Orcadi signor nel freddo cielo,
Di forza in prima e di prodezza speglio,
Or chiarissimo onor del bianco pelo,
Che da lunge scernendo il ben dal meglio
Del futuro scovrìa mai sempre il velo,
Non per divinità, ma per la vista
Che vecchia pruova ne’ molti anni acquista;
lxi
     Egli adunque levato disse: Or come
Non vedete voi lassi apertamente
Che spingete sotterra il vostro nome
E date il pregio alla nemica gente?
Questa barba nevosa e queste chiome
Che devean già molti anni essere spente
E questa vita stanca ancor si serba
Per veder tal di noi rovina acerba?
lxii
     Non vi sdegnate, Arturo, a dar credenza
Alle parole mie, che Pandragone
E Vortimero ancor non fur mai senza
Bene approvar la nostra opinïone:
Come che poca avessi esperïenza,
Nè sapessi però render ragione
Di molto più che di cavalli e d’arme,
Ebber sempre diletto d’ascoltarme.