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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/153

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CANTO XVII

ARGOMENTO

      Il re Lago sostien la ria battaglia,
Ove ucciso il destrier viene a Tristano.
Palamede i Britanni incalza, e taglia
A Caradosso l’una e l’altra mano,
Mentre dall’altro lato li travaglia
Co’ suoi feroci Iberni Seguruno.
È Galealto dal re Lago indotto
Chieder l’armi fatali a Lancilotto.

i
Già con le mille lingue intorno giva
E con le mille voci in alto grido
La dea veloce che col capo arriva
Ov’alto abbraccia il vago empireo nido
E, dove ogni alma di speranza e’ priva,
Col piè si posa nel tartareo lido,
E con l’ale cangianti or alta or bassa
Di volar notte e dì non fu mai lassa.
ii
     Questa il danno d’Arturo, e spesso ancora
Che sia morto o prigion racconta altrui,
E che sien seco poi di vita fuore
Tristan, Boorte e i miglior duci sui:
Tal che veder si può sola in brev’ora
Fuggir ciascuno, e non saper da cui,
Di cor, di senso e di cosiglio scosso
Come dal proprio folgore percosso.
iii
     E ’n fra gli altri all’orecchie era venuto
Del vecchio re dell’Orcadi il romore,
Che porge in altra parte fido aiuto
Al sinistro suo corno, che ’l furore
Mal regger può che gli e’ sopravenuto
Di Verralto l’Ispan, ch’ogni migliore
Tratto fuor degli arcier s’è innanzi spinto
E le schiere di lui n’ha intorno cinto:
iv
     Le quai, nude d’un fianco di difese
D’altri simili a quelli o di destrieri,
Son forzate a soffrir mortali offese,
Riservando al dever gli ordini interi.
Ma il dotto vecchio in ciò mille aste prese
De’ più antichi guerrier più esperti e feri
Che ritrovasse allor dall’alto lato
Che dal corno ch’è a destra era guardato;
v
     E per torto cammin più a loro ascoso
Subito e d’improviso gli percuote:
Tal che di sè fa il lito sanguinoso
Chi non cerca al fuggir le vie più note.
Or mentre torna a’ suoi vittorioso
E gl’innalza lodando in chiare note,
Vien volando Sorbante, che gli dice
La novella d’Arturo agra e ’nfelice,
vi
     E se sia vivo o morto ha posto in forse,
Perchè ’l peggio credea, ma dir no ’l vuole.
Senza risposta dare il buon re corse,
Chè gli spirti ha smarriti e le parole,
E non doglia minor l’alma gli morse
Che del morto figliuol pia madre suole;
E giugne al padiglione, ove ritruova
Serbin che di sanarlo e’ posto in pruova.
vii
     Or qual, pria che s’allume affatto il giorno,
Il tenebroso giel l’aurora scioglie,
Che rischiarar si veggion d’ogni intorno
Le piagge e i colli, e rallegrar le voglie
Si senton degli augei ch’al canto a torno
Fan dolce risonare erbette e foglie,
E di mille bei fiori aprire il seno
Si scorge al suo venir l’almo terreno;
viii
     Tale ogni suo pensier chiaro diventa,
Spogliato il brun nell’oscurato core.
Poi parla al grande Arturo, il qual tormenta
Del raffreddato male aspro dolore:
Non e’ di scettro degno chi non senta
Dell’amaro talor ch’apportan l’ore,
Chè questo solo i re perfetti face
E che ’l ben si conosce, e che più piace;
ix
     E tanto più che non dietro alla fronte
O in loco ove chi fugge non difende,
Ma in quella parte che con forze pronte
Tutto il resto ricopre e gli altri offende
V’è giunto il danno: e l’onorato fonte
Dell’arte ch’al sanar le piaghe intende
Qui con voi scerno, il quale ho già veduto
Ritòr l’alme laggiù di grembo a Pluto.
x
     Ah - risponde il gran re - giocondo padre,
Ben rendo grazie al ciel che la viltade,
Come san le nemiche e le mie squadre,
Non m’han fatte lassar d’onor le strade:
Ma desio forse d’opere leggiadre
Oltre il dever di regia qualitade
Con poca compagnia troppo mi spinse
Ove il mio buon voler fortuna vinse.