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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/18

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xci
     Mentre così parlava, gli risponde
Sorridendo la donna in tai parole:
Non della Luna i Monti o del Nil l’onde
O qual di Giove la tebana prole,
Là ’ve più ch’a noi qui tardo s’asconde
O più tosto e più bel si mostra il sole
O dove scalda più, convien cercare,
Volendovi co i merti eterno fare:
xcii
     Perchè in questo paese e ’n questo loco,
In queste nostre parti ime e palustri
V’è dato ad esser tal, che parran gioco
Quante altre antiche furo opere illustri;
Stancheransi le penne, e verrà fioco
Per voi più d’un poeta, e gli anni e i lustri
E i secoli infiniti non potranno
Fare al gran nome vostro ingiuria o danno;
xciii
     E crediatemi certo, ch’io non dico
Cosa che non mi sia ben manifesta:
Però che intera di Merlino antico
La divina scïenza oggi mi resta;
Che nel tempo ch’ei fu mio caro amico
Udì cortese la preghiera onesta
Ch’io gli fei di chiarirmi l’arti oscure
Di preveder le cose a noi future.
xciv
     E pria che ciò avenisse, gli avea detto
Ch’io d’aver un figliuol bramava molto,
Ma che sopra il mortal fosse perfetto,
Di virtù colmo e d’ogni vizio sciolto,
Che si chiamasse il cavaliero eletto
Ove il Cielo ogni bene avesse accolto.
Femmi risposta: - Donna, a non mentire,
Di voi non debbe prole rïuscire.
xcv
     Ma vi apprenderò il modo onde potrete
Averne un che fia tal, ch’appunto nacque
Il passato anno: a cui le stelle liete
Prometton quanto onore in uom mai giacque;
In tal modo, in tal tempo il troverete -;
E mi fè ben vedere il luogo e l’acque
Là ’v’io v’accolsi, e l’incantato lago
In cui soletta d’abitar m’appago.
xcvi
     Nè mancò tutto quel di farmi poi,
Che v’è avvenuto e vi avverrebbe, chiaro,
Affermando: - Ei sarà mai sempre a voi
Come del ventre stesso amato e caro,
E de’ pregi divin, de i merti suoi
Fia ’l vostro cor più che di vita avaro -.
Così dicea sovente, e non trovai
Che d’un momento sol fallisse mai.
xcvii
     Desïando esso poi di sposa averme,
Non mi piacque accordarmi alle sue voglie,
Che poi ch’uscir di me non devea germe
Volli sola restar fra le mie soglie;
Ma perchè di me semplice ed inerme
Non riportasse al fin vittoria e spoglie
Uom ch’era armato d’immortal sapere,
Mi convenne al mio stato provvedere;
xcviii
     E ’n questo convenente gli promessi
Ch’ei mi facesse un loco fabbricare
Il qual serrato eternemente stessi,
Nè forza o ingegno vi potesse oprare:
Ma che ’l modo d’aprirlo io sola avessi,
Lontana o presso ch’io ’l bramassi fare,
Perch’aveva un nemico ch’io temea
Che non mi conducesse a morte rea;
xcix
     E ch’ancor mi mostrasse il modo e l’arte
D’antiveder, qual ei, ciò ch’esser deve:
Che s’io mi ritrovassi in qualche parte
Senza l’aita sua, mi fosse leve
Per la virtù di sue celesti carte
Esaminar mia sorte o lieta o greve,
Schivando accorta ogni mortale inganno
Che mi potesse far vergogna o danno.
c
     Amore oprando in lui sì come suole
Mai sempre usare in ogni suo seguace,
Fè che Merlino, il qual sapea del sole
Tutti i segreti e d’ogni errante face,
Non conobbe esser false le parole:
Ma stimando il mio dir certo e verace
Fabbricò il loco, e diemmi la dottrina
Per cui si scorge la virtù divina;
ci
     Onde agevol mi fu quasi in quell’ora,
Mostrando far di quello albergo pruova,
Di serrarl’ ivi, dove ancor dimora,
E ’n cui l’alto saver nulla gli giova:
E di trarl’ indi mi ritiene ancora
L’antica ingiuria e la temenza nuova,
Chè ’l Ciel mi mostra che s’ei fosse sciolto
Mi saria con la vita ogni ben tolto.
cii
     Vedeva ancor che ’l gran valor di voi
Devea nel tempo mortalmente odïare,
Non sperand’ei giamai ch’alcun de’ suoi
Potesse a pari altezza sormontare:
Nè pensava io possenti ambedue noi
D’alla sua gran dottrina contrastare,
Chè la spada non val contr’a quell’arte,
Ed io so molto men che le sue carte.
ciii
     Così merta perdon la rotta fede
E ’l mio duro voler che sembra ingrato:
Chè l’altrui mal, che per suo ben procede,
Sovente ha tra’ miglior perdon trovato.
Or per tornare a voi, d’onore erede
V’ha fatto il Ciel, che sempre sia lodato:
E ciò fia in questo loco, in questa terra,
In questo tempo istesso, in questa guerra.
civ
     Pregovi or dunque, o mio famoso figlio,
Che senza altro pensar qui vi restiate,
E che nel mio materno util consiglio
(qual conviensi a ragion) speranza aggiate:
Che vedrete in tal pena e ’n tal periglio
Le genti altere che vi furo ingrate,
E ’n così sanguinoso e largo strazio,
Che vi farà pietoso, non che sazio.