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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/189

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cxxiii
     Tal diceva Brunoro e benchè fosse
Al fero Segurano aspro consiglio,
Il pregar pure e la ragione il mosse
A non tentar de’ suoi certo periglio;
Così arrestaro il corso e le sue fosse,
Poi che l’oste nemico assai vermiglio
Ha fatto e che da lui ne va lontano,
Passò il Britanno esercito e Tristano.

CANTO XXI

ARGOMENTO

      Il generoso amico alla reale
Tenda raccoglie Galealto ucciso:
Per cui, tal ira e tal dolor lassale,
Cibo non prende, da ciascun diviso.
Gli appar Viviana, e usbergo a lui fatale
Dona, e uno scudo da Merlino inciso;
Ove la sua prosapia appar scolpita
Di somma gloria e di valor nudrita.

i
Or mentre questi e quelli in tale stato
Han l’uno stuolo e l’altro ricondotto,
Già il re Rion securo era arrivato
Col miser Galealto a Lancilotto;
A cui nessun narrar l’acerbo fato
Non s’avea per timor l’animo indotto;
Però, qual nuovo inaspettato danno,
Più doglioso gli apporta e crudo affanno.
ii
     Il qual sempre restato era, dapoi
Che ’l suo diletto amico era partito,
Lungo l’albergo che chiudeva i suoi,
Fuor d’ogni fosso in solitario lito;
Or quando scorge il re, con gli altri duoi,
Ch’han gli occhi molli e ’l volto sbigottito,
E ’n fra lor l’aspra soma hanno divisa,
Che sia quel, ch’era in ver, subito avvisa;
iii
     E gridò di lontano: O signor miei,
È quel che scorgo qui, l’eletto amico,
Che mi renda infelici e giorni e rei,
E ’l viver, lasso, al mio voler nemico?
Deh come volentier tosto morrei
Pria che risposta aver di quel ch’io dico;
Ch’io so, che ’l rio destin mi pose al mondo
Per non lassarmi mai tempo giocondo.
iv
     Risponde il re Rion: Chiaro signore,
A quanto piace al cielo a noi conviene
Quetamente adattar l’animo e ’l core,
E tutto in grado aver che da lui viene;
Il gran re Galealto in sommo onore
Ha del mondo schivate omai le pene,
E dell’alto Motor, Fattore e duce
Gode lieto or lassù l’eterna luce.
v
     E del possente e fero Segurano,
Doppo aver lui mostrata alta virtude,
Ucciso fu dalla spietata mano,
Che troppo gran valor per esso chiude;
E ’l lassò al fin su l’arenoso piano,
Con le membra reali scarche e nude
Dell’armi vostre infino ad ora invitte
In mille parti già chiamate e scritte.
vi
     E se non era ancor la chiara aita
Del famoso Tristan, che non fu parco
Già mai di sangue suo, d’altrui rapita
Questa spoglia mortal fora in Avarco;
Ma mentre in altro affar tenne impedita
La schiera Iberna e noi pietoso incarco
Di lui prendemmo, e con veloce piede
Qui il conduciamo all’infelice sede.
vii
     Poi ch’ha detto così, del peso scosso
Ha sè medesmo e gli altri e posa in terra
Il grave scudo allor di Sinadosso,
Che ’l miser Galealto ascoso serra;
Mentre ch’al discoprirlo era già mosso
L’afflitto Lancilotto, in cui fan guerra
Tra loro ira, pietà, sdegno e furore,
E di pari ciascun gli ingombra il core.
viii
     E poi ch’egli ha la candida bandiera,
Onde celato gìa, di sopra tolta,
E l’ha squarciata in vista orrida e fera,
Le braccia intorno al caro collo avvolta;
Indi con voce oltra l’usato altera
In tal duro parlare al ciel si volta:
Deh perchè mi serbasti, invida sorte,
Vivo a cosa veder peggior che morte?