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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/190

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ix
     E’ questo il ben, che alcun predetto m’ave,
Che da voi mi verria, crudeli stelle?
Ch’oggi danno sì amaro, acerbo e grave
Mostrate a gli occhi miei spietate e felle,
Che l’incarco terren più nulla pave,
Ch’a i suoi brevi desir siate rubelle;
Che tanto in un sol dì gli avete tolto,
Che non vi resta omai da torgli molto.
x
     Ma se de’ miei dolor fuste sì vaghe,
Perchè almen non volgeste in queste membra
L’armi nemiche e le medesme piaghe,
E ’l fin ch’ogni mortale in uno assembra?
Deh come del suo mal talor presaghe
Son nostre menti, ohimè? Che mi rimembra,
Che all’apparir dell’alba mi destai
Tutto tremante di futuri guai.
xi
     E tu spirto real, ch’or sei nel cielo,
E che del mio dolor forse hai pietade,
Non ti sovvien con che fraterno zelo
Del guardarti d’altrui mostrai le strade?
Dicendo, ahi lasso, e sotto ascoso velo,
Per non offender tue virtù sì rade,
Che devessi schivar la cruda mano
Del fatale avversario Segurano?
xii
     Ma il troppo tuo valor, la troppa altezza
Del magnanimo cor t’indusse a questo,
Per furarmi dal mondo ogni dolcezza,
E per lassarmi a me gravoso e mesto;
Ma con quel cor, che sol piacerti apprezza,
Ti promett’io, s’al ciel non fia molesto,
Che tu potrai veder con chiara sorte
Larga di te vendetta o di me morte.
xiii
     Che nessun possa dir, che Lancilotto,
Doppo il crudo partir di Galealto,
Non aggia o il percussore o sè condotto
Sotto aspro incarco di marmoreo smalto;
Che ’l fil saldar, che dalla Parca è rotto,
Sol si conviene a chi ne scorge d’alto;
Che nel perder gli amici a noi promette
Solo i pianti, le lodi e le vendette.
xiv
     Il pianto avrai ma non da gli occhi miei,
Ch’al generoso spirto si disdice;
Ma da chi scorgerà gli acerbi e rei
Casi del popol suo morto e ’nfelice;
Le lodi altri ned io donar potrei
Simili a quelle ognor che canta e dice
Delle bell’opre tue l’alta memoria,
Ch’ovunque cinge il mare empie di gloria.
xv
     Poi ch’alquanto è sfogato, intorno chiama
Sinadosso, Galnese e ’l re Rione,
Dicendo: A cavalier di tanta fama,
Cui soggiacea sì larga regione,
Per chi perfettamente il cole ed ama,
E del tutto adempir sua cura pone,
Non si dee di ministro adoprar mano,
Che di sangue e virtù non sia sovrano.
xvi
     Però vi prego umil, per quello amore
Che sì chiaro di lui vi scalda il seno,
Che noi non disdegnam rendere onore,
Qual più si puote, al carcer suo terreno;
Che sia ridotto al pristino candore
Dalla polve e dal sangue ond’egli è pieno,
Da noi medesmi e nessun altro sia
In tale uficio indegna compagnia.
xvii
     Poi ch’ha finito, il nobil Sinadosso
Per preghiera degli altri a lui risponde:
Quanto pon questi duci e quanto io posso
Al dever vostro e nostro corrisponde.
Così dicendo il bel drappello è mosso
Con ricche urne dorate, ove con l’onde
Bagna d’Euro il ruscel l’erbose rive,
Del lungo guerreggiar già fatte schive.
xviii
     E dove più profonda e chiara appare,
E men rotta da’ carri e da’ destrieri,
Cerca intento ciascun la sua colmare
Di quelli illustri e rari cavalieri;
Indi a vedergli carchi ritornare
Ingombravan le vie gli altri guerrieri,
Che ripien di lugubre meraviglia
Alzano inverso il ciel l’umide ciglia.
xix
     Poi giunti al padiglion fra terra e sassi,
Pur di lor propria man fan ricco il foco
Di tronchi e frondi, che in veloci passi
Hanno accolti vicin d’intorno al loco;
Pendente in mezzo ov’ampio vaso stassi,
In cui givan versando a poco a poco
Tra mille erbe odorifere e sacrate
L’acque dal picciol fiume ivi portate.
xx
     Al qual d’alto romor fremendo in giri
Fan le montanti fiamme orrida guerra,
Mentre s’ode lontano alti sospiri
Muover l’onda crollante ch’ei riserra,
In fin che ’n freddo loco si ritiri
Vuol Lancilotto e si ripose in terra
Tanto, che ’l suo calor termine prenda,
Che la man di chi ’l tocca poco offenda.
xxi
     Poi sopra mensa aurata collocate
Le membra quasi incognite a chi vede,
Fur le spietate piaghe pria lavate,
Indi il corpo real dal sommo al piede;
Sì ch’all’esser di prima omai tornate
Le fattezze divine, ch’eran sede
D’ogni virtù immortal, si dimostraro
Come fosser giamai nel viver chiaro.
xxii
     Non potè fare allor l’invitto amico,
Che con grave sospir non gli parlasse:
Ov’era, alto mio re, l’amore antico,
Ch’al me sempre seguir fra noi vi trasse?
Che dal nostro comune aspro nemico
Almeno a mia cagion non vi ritrasse,
Dicendo: ’Or sieno in me scolpite e fisse
Quelle estreme parole, ch’ei ne disse’.