Vai al contenuto

Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/191

Da Wikisource.

xxiii
     Ma dove me tenea l’aspra mia sorte,
Che, qual sempre solea, non v’era a lato?
Ch’a mille Seguran dava io la morte
Pria che lasso vedervi in tale stato,
O che le mie giornate eran sì corte,
Come a voi l’ordinò l’acerbo fato,
Sì che l’uficio estremo, ch’or fo a voi,
Il faceva altra mano ad ambe duoi.
xxiv
     Così lasso dicendo intorno intorno
L’abbraccia e stringe a sè la chiara fronte;
Indi con vel di bei trapunti adorno
Per onorate man nobili e conte,
Che gli fu dato in quel felice giorno,
Ch’egli abbattè le forze al nuocer pronte
Del fero Ancaldo, che la bionda Isotta
Sotto il suo crudo impero avea condotta;
xxv
     Che fra mill’altri don, gli fu cortese
Di questo, ch’ei vorrebbe a più lieta opra
Aver servato, in cui tutto il paese
Dell’armorico regno pinse sopra;
Come ha nell’ocean le braccia stese,
Le quali or lassi nude, or tutte cuopra,
Secondo il vario corso ch’ave in cielo
La sorella di quel che nacque in Delo.
xxvi
     Con quel dunque l’asciuga e puro e netto
D’ogni sangue e di polve tutto il rende;
Poi tra le piume stese in aureo letto
Sovra fino ostro e seta, esso distende;
L’asconde appresso dal mortale aspetto
Da tappeto ricchissimo, che pende
Da ciascun lato, in cui varia riluce
E di gemme e di perle altera luce:
xxvii
     Là dove il ciel pareva e le sue stelle
Ben distinte fra loro ad una ad una,
Poco men che le vere ardenti e belle,
Quando più scarca sia la notte bruna;
Ma qual regina poi tra tutte quelle,
Di candidi adamanti era la luna
Cinta il volto divin, che ’ntero mostra
Al pio Germano ed alla vista nostra.
xxviii
     Questa una fu dell’onorate prede
Di Lancilotto già infinite allora,
Ch’a forza vincitor l’ardito piede
Pose in Benicco e ne ritrasse fuora
La vaga donna d’ogni grazia erede,
Di cui chiara beltà larga dimora;
La vaga Claudiana, che poi volse
Rendere al padre e premio non ne tolse:
xxix
     La qual diè poi Clodasso per isposa
Al fero Segurano, onde alfin nacque
Dell’invido Gaven la lite odiosa,
Che in altrui man vederla gli dispiacque;
Or poi che dalla veste preziosa
Il miser Galealto occulto giacque,
Dal dolore incredibile condotto
Gìo da gli altri in disparte Lancilotto
xxx
     E lungo il rio dell’arenoso lito
Duro seggio si feo pensoso e solo;
Et or prigion s’immagina, or ferito
Per le sue man tra ’l suo gradito stuolo
Il forte Seguran; nè sbigottito,
Benchè gli doni al cor travaglio e duolo,
L’ha il ritrovarse allor quell’arme tolte,
Che trionfare il fecer mille volte;
xxxi
     Che s’ei fosse mestier l’andare ignudo,
Per vendetta cotale anco il faria;
Che ’l suo più fino acciaro e ’l forte scudo
Era l’invitto ardir che ’n seno avia;
Ma rampognando il sol, l’appella crudo,
Che si tosto ent’a ’l mar tuffato sia;
E gli par che l’indugio di una notte
Tutte le sue speranze aggia interrotte.
xxxii
     E mentre d’uno in altro aspro pensiero
Il dolore e ’l furor la mente guida,
Scorge vicino il piè sopra il sentiero
Della nutrice sua famosa e fida;
Questa è la sua Viviana, a cui leggiero
Fu ’l vedere il cordoglio, che s’annida
Nell’alma invitta e che d’altrui sien prede
L’arme incantate pria, ch’ella gli diede;
xxxiii
     Che in sollecito core avea provvisto
Di quanto uopo facea nel gran bisogno:
Così dove sedea pensoso e tristo,
Quasi imagine appar che venga in sogno;
E ’n volto amaro e di dolcezza misto
Comincia: O figliuol mio, cui solo agogno
Veder sovra il mortal lieto e contento,
Qual ti affligge di nuovo aspro tormento?
xxxiv
     A cui rivolto il figlio del re Bano
Risponde: Or non sapete, alma nutrice,
Come il brando crudel di Segurano
Fosse al mio Galealto agro e ’nfelice?
Et a me molto più; ch’ogni altro invano
Accidente mortal chiaro e felice
Per mio restauro può venirmi omai,
Ch’io non spero altro più, che tragger guai.
xxxv
     Ma ben bramo dal ciel per somma grazia,
Che innanzi al mio morir, ch’è lunge poco,
Mi faccia don ch’io renda l’alma sazia
Di sua larga vendetta in questo loco,
A fin ch’or chi ne strugge e chi ne strazia
Non molto il nostro mal si prenda in gioco,
E che ’l mio dolce amico intenda scorto,
Che qual vivo l’amai, l’amo anco morto.
xxxvi
     Dogliomi io ben, che delle fatai arme,
Che mi venner da voi, diletta madre,
Non potrò, lasso, nell’aurora armarme,
E sorta averle all’opere leggiadre;
Ma sia che può; chè non potrà vietarme,
Se non solo il voler del Sommo Padre,
Contra il qual nulla puosse, ch’io non vada
Nudo e di vetro ancor porti la spada;