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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/192

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xxxvii
     Ch’assai mi basta il cor, ch’io porto in seno,
E l’onore e l’amor di Galealto,
Che tanto pon, ch’io non gli apprezzo meno,
Ch’arme incantate, al periglioso assalto;
E se pur ne morrò; sovra ’l sereno
Accolta fia dal suo Fattore in alto
Quest’alma afflitta con perpetua lode,
Tra ’l chiaro stuol, ch’eternamente gode.
xxxviii
     Tal dice Lancilotto, a cui rispose
La nobil donna del famoso Lago:
Il grave duol delle avvenute cose
Vi fa di lamentar soverchio vago;
Nè ben conviene a menti gloriose
D’alcun futuro mal l’esser presago,
Ma il passato soffrir costante e forte,
Sperando all’avvenir più amica sorte.
xxxix
     Nè temer già devreste, ov’io mi trove,
Che vi mancasser mai l’armi pregiate,
Nè per vostra salute aite nuove,
Onde al sommo d’onor salir possiate;
Che com’io intesi l’infelici prove
Di Galealto e come restavate
Del ferro privo, ond’io vi feci adorno
Quando varcaste il mar nel primo giorno;
xl
     Tosto all’oscura tomba, dov’io tegno
L’incantator Merlino a me suggetto,
N’andai pregando, che voi fesse degno
D’altro acciar rivestire e più perfetto;
Et ei, ch’ancor per me soggiace al regno
Cieco d’amor, col più benigno aspetto,
Che faceste ancor mai, mi disse: ’Donna,
Che sete a’ miei pensier ferma colonna;
xli
     Egli è gran tempo omai, che le mie carte,
E gli spirti miglior, che meco stanno,
Mi mostraro e narraro a parte a parte
Il presente di voi caduto danno,
Perch’io fei fabbricar con divina arte
Arme celesti, che virtude avranno
Sopra quante mai furo e di beltade
Non vide a loro eguali alcuna etade.
xlii
     E nel nobile scudo fei scolpire
Di Lancilotto poi la larga prole,
Che dee di tempo in tempo riuscire
Alta e famosa ovunque allume il sole,
Perch’ei possa per lor gli sdegni e l’ire
Temprar mirando e ciò che pesa e duole
Far leve e lieto e ’l mal presente oscuro
Rischiarar con l’onor ne’ suoi futuro.
xliii
     Or le prendete adunque e dite a lui
Che non gli può mancar chiara vendetta;
Chè fia cotal, ch’ogni alta gloria altrui
S’udirà al par di lei, bassa e negletta;
E si conforti in contemplar de’ sui
La regia stirpe, dalle stelle eletta
Per alzar con la spada e col consiglio
Al quinto e sesto ciel l’aurato giglio’.
xliv
     Così dicendo allora il gran profeta
Il desiato don mi pose in mano;
Et io quanto esser puosse di ciò lieta
Grazie gli rendo con sembiante umano;
E volando ove l’aria è più quieta,
E ’l seren dalle nubi più lontano,
Quale il fulgure ardente in basso cade,
Ho segnato al venir l’altere strade.
xlv
     E per quant’io v’apprezzo e per suo nome
Con tutto il mio desir grazia vi chieggio,
Che del passato omai le dure some
Scarcar vi piaccia e non temer di peggio;
Chè se ben pria che ’mbianchin queste chiome,
Il vostro ultimo fin venuto veggio,
Sarà con tale onor quel breve tempo,
Ch’assai dolce vi fia partir per tempo.
xlvi
     Ma se voleste voi restando in pace,
Dentro al patrio terren menar la vita,
Trapassar si porria quel che vi face
Di questi anni la via corta e spedita;
Ma cercando d’onor l’accesa face,
Come il vostro volere ognor v’invita,
Me lasserete e i vostri in larga doglia,
Richiamando di voi la sciolta spoglia.
xlvii
     Così diceva e ’l fero Lancilotto
Risponde: Assai mi fia, madre pietosa,
Che ’l cielo infino a qui m’aggia condotto,
S’io posso vendicar la morte odiosa
Del caro amico e poi mi spinga sotto
Là, dove ogni mortal perpetuo posa;
E di vita aggia un’ora questa salma,
Pur che viva in onor poi sempre l’alma.
xlviii
     Qui si tacque egli ed ella oltra seguendo
Gli dice: Poi ch’a voi questo non piace,
Col voler di lassuso in grado il prendo
Presta al tutto soffrir col core in pace;
E ’l ferro invitto in poter vostro rendo,
Chè sia al chiaro desir guida verace;
E così ragionando stende a terra
L’arme, cui simil mai non scese in guerra.
xlix
     Quando venne al buon duce lo splendore
A percuoter la vista, che l’abbaglia,
Sentì tanta dolcezza il tristo core,
Che in estrema allegrezza se ne saglia;
E più raccresce in lui l’ardente amore
Di tosto ritrovarse alla battaglia;
E tutte ad una ad una in man si prese
Le parti altere del celeste arnese.
l
     Guarda l’elmo onorato, ove il cimiero
D’una crinita stella ardea d’intorno
Di bel piropo, ch’avanzava il vero
Quando il ciel più seren si mostre adorno;
Allor che minacciar provincia o impero
Di danno intende o di novello scorno,
Chè ’l popol tra temenza e meraviglia
Alza divoto al ciel l’umide ciglia.