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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/193

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li
     La pesante corazza appresso prende,
Che di finissim’oro ha largo fregio,
In cui davanti un sol lucido splende
Di fiamme avvolto di colore egregio,
E i raggi ardenti d’ogn’intorno stende
Tra carbonchi e topazi d’alto pregio,
E sì vaghi al mirar, che mostran bene,
Che da divin martel tal’opra viene.
lii
     Tutte l’altre arme poi, che son difesa
Delle braccia e del resto infino al piede,
Con mente allegra e di dolcezza accesa,
Qual desiato don, meneggia e vede;
E l’apprezza cotal, che non gli pesa,
Ch’or sia dell’altre Segurano erede;
Chè tanto a queste son le prime eguali,
Quanto son le terrene alle immortali.
liii
     Poscia il brando celeste in mano ha preso,
E del foder gemmato ha tratto fuore;
Troval di tempra tal, che mal difeso
Ogni incanto saria dal suo furore;
Nè di lui si spaventa al grave peso,
Cui non men convenia, che ’l suo valore;
E già vorria vicin, com’ha lontano,
Il crudele avversario Segurano.
liv
     Il duro scudo alfin possente e greve
Con ardente desio leva da terra,
Com’un altro faria la scorza leve
D’arido salcio, ch’Aquilone atterra;
In cui di fino acciar cerchio non breve
Cinque scorze durissime riserra,
Le quai regger porrien contra le prove
Delle folgori asprissime di Giove.
lv
     Dentro d’argento e d’or tutte coverte
Eran le ornate pelli, onde s’appende
Al collo o al braccio, dove a guerre incerte
Di lancia o spada il cavaliero intende,
Con fermissimi chiodi in esso inserte,
E di ciascun de’ quai la fronte splende
Di rubin, di diamanti e di zaffiri
Da abbagliare il veder di chi gli miri.
lvi
     Di fuor sovra l’acciar commessa d’oro
Guarda la stirpe sua l’altero duce,
Distesa intorno in sì sottil lavoro,
Che bisogna al mirar del sol la luce;
Ivi son quei miglior, che primi foro,
I quai virtude invitta riconduce
Alla insegna real del giglio aurato,
Per difetto d’altrui già in basso stato.
lvii
     Ivi scorgea ne’ suoi gli eterni onori,
E le chiare opre loro al mondo sole;
Nè pure in Gallia i guadagnati allori,
Ma i Germani anco, ove men scalda il sole,
Congiunta co’ più illustri imperadori
Di tempo in tempo la felice prole;
Ma poi ch’al regno Sassone discese,
Ritornò in Gallia al suo natìo paese.
lviii
     Alto apparia ’l magnanimo Ruberto,
Che del famoso Angiero scettro avea,
In arme, in senno ed in valore esperto
Sì, che i crudi vicini a fren tenea,
E ’l popol lasso e de’ suoi beni incerto
Col medesmo suo sangue difendea;
Che liberando quel d’acerba sorte,
Trionfò de’ Normanni con sua morte.
lix
     Indi il minor Ruberto d’esso usciva,
Che regnò tra ’l Pirene e la Garona,
E ’l saggio Odon, che per bontade schiva
Dell’onorata Gallia la corona;
Ma non già quel, che la quieta Uliva,
Per acquistar cipresso n’abbandona;
Chè mantenendo il pria gustato onore,
Lungo il fertil Sesson tra l’arme muore.
lx
     Di cui giovin rimaso il grande Ugone
Contra i nemici suoi fu ardente foco;
Ch’ora al gallico re temenza pone
Dispogliandol talor di più d’un loco,
Or gastigando il rio cognato Otone,
Chè ’l legame del sangue stimò poco,
Quando al Neustrio terren la chiara Sena
Feo del sangue German vermiglia e piena.
lxi
     Di costui nato poscia Ugo il secondo
Che ’l popol per onor Capeto appella,
Ch’ebbe il destin più amico e più giocondo,
E più cortese in ciel ciascuna stella,
Lì si vedea; ch’all’affannato mondo
Riportava l’età fiorita e bella,
Levando i gigli d’or negletti e bassi,
Colpa de’ suoi rettor di virtù cassi,
lxii
     Degenerato essendo il divin seme
Del glorioso erede di Pipino
Doppo il volger duo secoli e che preme
Con loro il terzo al mezzo suo cammino.
E quale al freddo ciel nell’ore estreme
Porta dolce restauro nel mattino
Il risurgente sol, non punto meno
Venn’ei bramato al gallico terreno:
lxiii
     Ma perchè rare volte o mai non viene,
Che sia in ciascun mortale il veder sano,
Ivi era sculto come a lui conviene
Muover contra i più rei l’arme e la mano;
Abbatte il Lotteringo e ’n vita il tiene
Con la sposa e i figliuoi cortese e piano,
Poi tra ’l popol miglior di lui contento
Prende il reale scettro e ’l sacro unguento.
lxiv
     Poi nell’anno secondo fa il figliuolo
Ruberto coronar, lui vivo ancora,
Per far lieto di quel l’amico stuolo,
Che ’n gelosa temenza ne dimora;
Questi il sommo Fattor dell’alto polo
Con sì devoto cor mai sempre adora,
Ch’al buon popol fedel fu vero essempio
Di coltivar di Dio l’eletto tempio.