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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/203

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lxvii
     Dicendo: Ella fu già del mio Girone,
Della qual don mi fè quando morio,
E per narrare il vero, altra stagione
Più matura convienle al poter mio;
Ch’oggi ha il terz’anno pur, che ’n su l’arcione
Montai, partendo dal terren natio,
E di tre lustri soli era il natale,
Sì che meglio è per voi brando cotale.
lxviii
     Prendela Lancilotto e ponla in mano,
Poi che grazie rendeo, dello scudiero;
Poscia il domanda: E ’l vostro Segurano,
Che del nostro dolor va così altero,
Ov’or si sta, che presso nè lontano
Non si vede apparir sovra il sentiero?
Dite per cortesia, dove il lassaste,
Tra cavalieri armati o pedestri aste?
lxix
     Risponde Gallinante: Ei non è lunge
Con Clodin, con Brunoro e Palamede,
E verso il buon Tristano il destrier punge,
Vicino ove l’Euro ha l’umida sede;
Ch’or questi spinge innanzi, or ricongiunge
Quei ch’e’ vede ire sparsi e ben provvede
Ove il bisogno vien, da poi ch’ha inteso,
Che sete in guerra voi di sdegno acceso.
lxx
     Il ringrazia egli allor; poi ratto sprona
Verso la destra mano, ove ha sentito,
Ch’è l’avversario suo; nè spinge e tuona
Più il cruccioso aquilon nel tracio sito,
Quand’Eolo al più gran verno lo sprigiona
A percuoter crudel questo e quel lito,
E nell’aria e nel cielo movendo guerra
Abbata i legni in mar, le mura in terra.
lxxi
     Incontra al cominciar la gente stretta
Sì, che non può trovar sì tosto strada;
Che da quei, che son doppo, in guisa eretta,
Chè non si vede alcun, che ’ndietro vada;
Ma Lancilotto allora il troncon getta,
E pon la mano alla divina spada,
Di cui l’ardente e ’nsolito splendore
Empiea ciascun d’orribile terrore.
lxxii
     Sì come al peregrin talora avviene,
Che si ritrove sol la notte fosca,
Che sovra l’orizzonte accesa viene
Con la fiamma crudel, che ’l mondo attosca,
L’empia cometa; che ’ngombrata tiene
Del ciel gran parte ed ei non la conosca,
Ma tema il miserel, che da quel loco
Tutto il mondo di poi si volga in foco;
lxxiii
     Tale avvien tra costoro e ciascun fugge
Col core almen, poi che col piè gli è tolto;
Ma qual fero leone, intorno rugge,
Che da cani e pastor si trove avvolto,
E tutto il miser popolo distrugge,
Percotendogli il cor, le spalle, il volto,
Come prima s’avvien, sì che i sentieri
Empie d’uomini, d’arme e di destrieri.
lxxiv
     Sembra alla calda estate, quando cade
Grandine spessa e subita tempesta,
Che tronca e fiacca le mature biade,
Che nè spiga nè paglia intera resta,
Ma si vede calcar l’afflitte strade
Quella in polve conversa e trita questa;
Che la pia villanella grida e piange,
E si squarcia i capelli e ’l volto frange.
lxxv
     E dal fero Nifonte, in core acceso
Di far vendetta anch’ei di Galelalto,
Era l’afflitto stuol non meno offeso,
Ch’or de’ piedi, or de’ denti innuova assalto;
Quel sopra il volto e quel supin disteso
Fa nella trista valle orrido smalto;
Et ei dove più d’essi scorge insieme,
Con più caldo furor la terra preme.
lxxvi
     Quasi come il cultor che adeguar vuole,
Per le biade mondar, l’eletta parte,
Che le sue rozze genti al caldo sole
A calcarle il terreno ha in cerchio sparte;
Poi con rotondi marmi spiegar suole
In grave rivoltar la forza e l’arte,
Tal che più nullo in lei, ch’offenda il piede,
Sasso, gleba, nè sterpo esser si vede.
lxxvii
     Così facea il destrier; che s’alcun vivo
Degli abbattuti ancor rimane in terra,
Si ritrovava poi di spirto privo
Dal secondo aspro peso, che l’afferra;
E benchè Lancilotto appaia schivo
D’uccider gente tal; poi che gli serra
Il cammin di trovar l’Iberno altero,
Vien contra l’uso suo spietato e fero.
lxxviii
     Era il brando già lucido ricinto
Di cervella atre e di sanguigno orrore;
Di lordissime macchie era dipinto
Dell’altro arnese il candido splendore;
L’argentato suo scudo parea tinto
Nell’onde stigie d’infernal colore;
Gli occhi già dolci e ’l grazioso volto
In quel d’aspe mortal parea rivolto.
lxxix
     E per nuovo timor la gente molta,
Ch’all’invitto furor forza non ave,
Qual’era in schiera numerosa e folta
Dentro all’onda si pone armata e grave,
E di doppio periglio insieme avvolta
Più Lancilotto assai, che morte pave;
E tanti in un si gettan dall’arena,
Che la riviera omai n’è intorno piena.
lxxx
     Sembran come talor che ’l cielo ingombra
D’affamate locuste i lieti campi,
Che ’l villanel da’ frutti suoi le sgombra
Con alta fiamma, che ’l terreno avvampi;
Ch’elle tra ’l foco e ’l fumo, che l’adombra,
Non trovando altra guisa, che le scampi,
Del fiume più vicin, ch’ivi si mostri,
Empion saltando in lui gli umidi chiostri.