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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/215

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cvii
     Morto è ’l buon Dinadano, morto è Brunoro,
Palamede il gran duce e Bustarino;
Ma quel ch’aggrava più, morto è fra loro
Il vostro caro e misero Clodino;
E ’l gran suocero vostro il suo tesoro
Vide condotto all’ultimo confino,
Chè sopra all’alta torre scerse il tutto,
Chiamando sempre voi con pianto e lutto.
cviii
     Gridando: ’Ov’or si trova ogni mia speme,
Il gran genero mio? Perchè non viene
A soccorrer quel resto del mio seme,
Che la fortuna ancor vivo ritiene?’
E ’n questa, chi l’assalta e preme,
Poi che gli ha tratto il sangue di più vene,
Ferirlo in mezzo il cor con l’empia spada,
E riversar senz’alma su la strada.
cix
     Al cui crudo cader cadde egli ancora
Sopra le nostre braccia afflitto e smorto;
E ’l re Vagorre mi comanda allora,
Ch’io vi cercassi per cammin più corto,
E narrassi il gran danno, ove dimora
La misera città, senza conforto,
Senza sostegno omai d’alcun de’ suoi,
Senza speranza aver se non di voi;
cx
     Chè ’l crudo Lancilotto in tale orgoglio,
In tal rabbia e furore oggi è salito,
Che di romper di Scilla il duro scoglio
Col brando, ch’ei sostien, sarebbe ardito;
Pien di spavento insomma e di cordoglio
Tutto il campo in Avarco è rifuggito;
Sol questa parte di timor si sgombra,
Che del vostro valor combatte all’ombra.
cxi
     Mentre il feroce Iberno le parole
Del tristo messaggier tacendo ascolta,
Non fu di sì grand’ira al caldo sole
Offesa dal villan mai serpe avvolta,
Com’egli allora ed or nel cor si duole
Del suo Clodino, or della gloria tolta,
Chè mal può ricovrar, poi che lui vivo
Sia d’un tanto figliuol Clodasso privo.
cxii
     Nè sa con quai conforti possa omai
Raffrenare il dolor della consorte,
Nè con la vecchia Albina scusar mai
La lontananza sua da quella morte;
Vergogna il punge e gli raccresce guai
Pungente invidia in più gravosa sorte;
Che ’l giovin Lancilotto ornato vede
Di tante illustri e sì famose prede.
cxiii
     E da’ tristi pensier distratto il core,
Ove il pensa trovar ratto s’invia,
E ’n un momento uscio di vista fuore
Del buon Tristan, che presto il brameria;
Pur lui perdendo, sfoga il suo furore
Sovr’altra gente e spinge a morte ria
Tanti quel dì, che si porrian contare
Non più che l’onde dell’Icario mare.
cxiv
     Ma l’infiammato Iberno al fin condotto
Alle sponde vicin della riviera,
Come scorge da lunge Lancilotto,
Gli dice in voce minacciosa e fera:
Pria che ’l giorno ch’or luce asconda sotto
L’occaso il volto e si converta in sera,
Tremante il petto e lagrimoso il viso
Ti pentirai d’aver Clodino ucciso.
cxv
     Nè ti varrà l’avere arme incantate,
Vano e folle guerrier della nutrice;
Nè mille più di lei sagaci fate
Ti porriano scampar l’ora infelice;
E triste oggi per te saranno state
L’alte vittorie, onde ti fai felice;
Chè i tuoi chiari trofei, le ricche spoglie
Spiegherai di Pluton nell’atre soglie.
cxvi
     All’aspro minacciar subito volto
Il gran figlio di Ban; tosto che scerne,
Ch’egli è pur Seguran, che ’ntorno accolto
Più d’uno avea delle sue schiere iberne;
Col cor ben lieto e con allegro volto
Rende alte grazie alle virtù superne;
Tra gli arcion si conferma e sovra il petto
Lo scudo addrizza e meglio il brando ha stretto.
cxvii
     Indi come leon, che dal digiuno
Lungamente già oppresso, ha il dì cercato
Per boschi e valli, nè d’armento alcuno,
Nè di cerva o di damma orma ha trovato;
Che quando ha meno speme, all’aer bruno
Se gli mostra un gran tauro al verde prato;
Ch’a lui s’avventa, qual saetta soglia,
Sbramando ingordo l’affamata voglia.
cxviii
     Così verso il corrente Segurano
Il bramoso guerrier muove il destriero;
L’uno e l’altro di lor l’acerba mano
Alza all’istesso punto ardito e fero;
Ma l’onorato figlio del re Bano
A ferir l’avversario fu il primiero;
E l’oscuro dragon, che in oro assiede,
Sovra il possente scudo altero fiede
cxix
     E quantunque d’acciar la sesta scorza,
E finissima e grossa il ricingesse,
Del sacro brando all’infinita forza
Non come contra gli altri integro resse;
Chè ’l partì fino al mezzo e tanto sforza,
Che la sinistra spalla ancora oppresse,
E fè in basso piegarse il grande Iberno,
Qual l’abeto aquilone al maggior verno.
cxx
     Ma non senza vendetta; ch’esso irato
Con la spada, ch’ei tolse a Galealto,
Tosto percosse lui nel prioprio lato
Cotal ch’ebbe acerbissimo l’assalto;
L’argentato suo scudo, fabbricato
D’immortal tempra di porfireo smalto,
Pur con tutto il valore al duro peso
Col suo nuovo signor fu molto offeso.