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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/219

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iv
     E cangiato il vestir, ma bruno ancora,
Il qual sempre portar dispose poi,
S’invia tutto soletto, ove dimora
Il re, senza volere alcun de’ suoi:
Come il sente appressar, portarse fuora
Fa il grande Arturo da famosi eroi
Sovra un’aurato seggio e ’n su le soglie
Qual figlio dilettissimo l’accoglie.
v
     Dicendo: Or chi potrà ’l valore invitto
A pien lodar del chiaro Lancilotto?
Che ’l nostro stato misero ed afflitto
Al sommo del suo ben solo ha ridotto?
E di chi fea tremar l’India e l’Egitto
Oggi ha di vita il fil troncato e rotto,
Con tanti altri famosi duci e regi,
Che d’onore immortal merita fregi?
vi
     Ma poi ch’altro non posso per mercede
Vi dono io ’l nostro scettro e tutto il regno,
E d’esser meco d’ogni cosa erede,
Qual’unico figliuol, vi appello degno;
Ma il cortese guerrier chinato al piede,
E di somma umiltà mostrando il segno,
Doppo il baciar la man, che no ’l volea,
Con riverente amor così dicea:
vii
     Invittissimo re, non la virtute,
Non l’ardire o ’l valor, che in me si chiuda,
Han portato altrui danno, a noi salute,
Ma la voglia del ciel semplice e nuda,
Alla qual sol le grazie son dovute,
Però che indarno s’affatica e suda
L’oprar nostro mortal, che s’alza o cade
Secondo il suo parer per dubbie strade.
viii
     Ma poi che per mia man questo consente,
E che darmene pregio a voi pur piace,
Ne voglio un sol, se la cortese mente
Oltra ogni merto mio degno mi face;
Che per sua regia man sacra e possente
Di vittorie e di fè, che in essa giace,
Mi sia sprone allacciato e brando cinto,
In memoria di quei, che a morte ho spinto.
ix
     Le corone, i terren, le gemme e l’oro,
L’altre cose maggiori al mondo care
Serbate a gran perigli per coloro,
Che n’aggian più di noi le voglie avare;
Ch’a me sol basta il marzial lavoro
Allumar di virtù con l’opre chiare,
E ’mpiegar le mie forze e questa vita
A gli oppressi e i miglior porgendo aita.
x
     Così parlando ancor, l’invitto Arturo
Con le braccia il sollieva e tienlo stretto,
Poi lagrimando dice: Animo puro
Per essempio del ciel fra’ nostri eletto,
Ogni ben chiaro onor verrebbe oscuro
Del vostro alto splendor sendo al cospetto;
Ma per far la mia man, non voi più degno,
Della cavalleria vi darò il segno.
xi
     Poi chiamando Agraven sommo scudiero,
Gli comanda portar la spada istessa,
Che dal gran padre suo famoso Utero
Per la propria cagion gli fu concessa;
Ch’ha d’or l’albergo e sì lucente e altero
Di gemme tutto appar, che a chi s’appressa
La vista abbaglia intorno, come suole
Quando è nel dì seren più chiaro il sole.
xii
     Nè men di lei la serica cintura
Di preziose pietre splende e d’oro;
Chè sembra, ove l’april con maggior cura
Tesse d’erbe e di fior più bel lavoro,
O ’l ciel quando più appar la notte pura,
Ch’aggia di stelle in sen ricco tesoro;
Ond’ei fu pria di Vortimero erede,
Venuta a lui tra le sassonie prede.
xiii
     Con quella gli spron, ch’ebbe allor’anco,
Ch’alla guisa medesma erano ornati;
Le stelle, ch’al destrier pungono il fianco,
Son d’aguti adamanti assai pregiati:
Ma in questo mezzo il bel drappello stanco
De’ duci al lungo giorno affaticati
Doppo alquanto riposo, al proprio punto
Desiato dal re quivi era giunto.
xiv
     Al cospetto de’ quai lieto rivolto
Al chiaro Lancilotto gli ragiona:
Qualunque duce o re mai fosse accolto
A sì gran degnità ch’a voi si dona,
Giurar si face, che ’l pio core avvolto
Avria di quel desio, ch’al cielo sprona,
Confidando in lui sol, che ’l guado mostra
Del torrente mortal dell’età nostra;
xv
     Nè che mai giusta aita negheria
A chi fosse con forza offeso a torto;
E ch’a donne e donzelle onesta e pia
Saria difesa e nel dolor conforto;
Nè che battaglia mai refuteria
Fin che sia dal destin battuto e morto;
E più che della vita cura avere
Della promessa fede mantenere;
xvi
     Nè mentir mai di sè con torta lode,
Nè del biasimo altrui rendersi adorno;
Scoprire al suo signor l’ascosa frode,
Che gli potesse far dannaggio e scorno;
Esser sol per virtude ardito e prode,
Non per turbare il placido soggiorno
Della gente miglior, che in dolce pace
Con la famiglia sua secura giace;
xvii
     Et altre cose assai, ma perchè intendo,
Che mai sempre per voi viveste tale,
Sol di farvi giurar la cura prendo,
Che siate ognora a voi medesmo eguale;
Poi vi prego, signor, s’io non v’offendo,
O se de’ miei desir punto vi cale,
Che vi piaccia abbracciar Gaveno omai
Con quel candido amor, ch’aveste mai.