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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/220

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xviii
     Risponde Lancilotto: Il sommo impero,
Ch’io voglio aggiate in me quanto avrò vita,
Non di spogliarmi sol lo sdegno fero,
Che m’avea contro a quel l’alma ferita,
Ma forza ha tal, che nullo amico intero,
Ond’ogni voglia sua resti compita,
Troverrà più di me; così vi giuro
Qual guerrier senza biasmo e servo puro.
xix
     Tanto poi più ch’ogni discreto core
Quella offesa in oblio lassar devria,
Chè non premendo adentro il vero onore
Fiamma ardente d’amor cagion ne sia,
Come in lui fu; che mosso dal dolore
D’esser di cosa privo, ch’ei desia,
Volse più tosto irato il guardo avere
Al proprio danno suo, ch’al mio devere.
xx
     Così detto l’abbraccia e lui Gaveno,
Poi fur sempre fra lor fidati e cari;
Or già il divo Germano, ornato il seno
Qual ne’ più festi giorni a i sacri altari,
Il santissimo libro ch’è ripieno
De’ precetti divini e detti chiari,
Porge al figlio di Ban, ch’umile e piano
Rivoltandosi al ciel, vi pon la mano.
xxi
     Dicendo: Al sommo Dio giuro e prometto,
Se la grazia di lui mi vegna scorta,
Di mai non traviar di quanto ha detto
Il Britannico re, con voglia torta;
Qui l’uno e l’altro arnese all’opra eletto
Agraven nel suo dir correndo porta;
Ch’al re Lago gli sproni in guardia ha dato,
Come al chiaro Tristano il brando aurato.
xxii
     Il qual baciato in atto riverente
Dentro alla regia man tosto il ripone;
Arturo in vista placida e ridente
Del nobil Lancilotto al fianco il pone;
Diegli nel modo istesso umilemente
L’Orcado invitto l’uno e l’altro sprone
Et ei pur di sua man non sdegna ancora
Di cingergliene i piè, ch’ei tanto onora.
xxiii
     Poi ch’è giunto al suo fin l’onore altero,
Che suggetto maggior non ebbe unquanco,
Non alcun re, non duce o cavaliero
Di lodar sue virtù si vide stanco;
Ma il buon re Lago a cui dona l’impero
Sovra tutti il color canuto e bianco,
Cominciò in chiara voce: Oggi mi tegno
Miglior, ch’io non solea, di questo segno;
xxiv
     Poi ch’un sì chiaro duce mi ritrovo
Compagno aggiunto per cavalleria,
Avvegna io di molti anni ed esso nuovo;
E ch’io d’Utero ed ei d’Arturo sia;
E quantunque a lui pare io non m’approvo,
Pur venni anch’io per la medesma via,
Il dì, che ’l gran Sadocco a Camelotto
Di Pandragon l’esercito avea rotto.
xxv
     Ch’io duce sol da quattro miei seguito,
Sibilas, Sinadosso ed Arfazaro,
E Randon Persian, sovra quel lito
Fui contra al vincitor scudo e riparo,
In fin che ’l popol nostro sbigottito
Co’ cavalieri a guerra ritornaro,
Poi ch’udir, che Sadocco per mia mano
Premea senz’alma l’arenoso piano.
xxvi
     Perchè nel luogo istesso e tutto armato
Sovra il destriero ancor da Pandragone
Mi fu il proprio suo brando posto a lato,
E di lui cinto a i piè l’aurato sprone;
E ’l duodecimo lustro è già passato
In questa, ove noi siam, calda stagione;
Ma piacesse oggi al ciel ch’io fossi ancora
Di forza e di valor qual’era allora.
xxvii
     Così dicendo, per dolcezza il volto
Bagna di larghe lagrime e l’abbraccia;
Ma già di servi stuolo insieme accolto
Della cena apprestar ratto procaccia;
Chi del gran padiglione ha intorno tolto
Ciò che ’l fa impuro o che lo spazio impaccia;
Chi adorna in giro la rotonda mensa
Di delicati lin, chi fior dispensa.
xxviii
     Quel del frutto di Cerere l’ingombra,
Quel di Bacco il liquor pone in disparte
In argentati vasi e ne disgombra
Il calor che dà il ciel con onda ed arte;
Quel loca i ricchi seggi ove fanno ombra
Di seta, d’ostro e d’or cortine sparte;
E già la lunga pompa i passi spande,
Ch’apporta in lei le splendide vivande.
xxix
     Già schiera di donzelli in urne aurate
All’alte regie mani umil presenta
Le chiare acque freschissime odorate
Tal che l’aer vicin se ne risenta;
L’imperiali insegne il dì spogliate
Arturo a quanti sono egual diventa,
E questo e quel per suo compagno chiama
Re, duce e cavalier di maggior fama.
xxx
     Ma il chiaro Lancilotto e ’l buon Tristano
Sovra quanti altri sono onora e cole,
L’uno e l’altro di lor tira con mano,
E l’invita in dolcissime parole;
Indi il vecchio re Lago in atto umano,
Qual suo padre onorato, come suole;
Poscia appella Gaven, Florio e Boorte,
Che pure infermi ancor vennero a corte.
xxxi
     Assiso al fine ogni uom tra l’esca e ’l vino
Al passato sudor restauro dona,
Mentre ch’or altamente, or col vicino
Delle fatiche sue basso ragiona;
Poi tutti insieme con favor divino
Dan della intera palma la corona
Al gran figlio di Bano a cui pur piace
Il lodar tutti gli altri e di sè tace.