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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/221

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xxxii
     Or poi che della sete e del digiuno
Il natural desio rimane spento,
Scarca la mensa al fin, sedea ciascuno
Con le membra più salde e ’l cor contento;
Solo il pio Lancilotto orrido e bruno
Tiene il pensiero al caro amico intento;
E per altro compir, che in mente avea,
Già drizzatosi in piè così dicea:
xxxiii
     Invittissimo re, poi che concesso
M’ha il ciel di vendicar chi tanto amai,
Vorrei dar fine a quel che viene appresso,
Ch’è di pregio maggior che l’altro assai,
Di porger preghi al ciel, che voglia in esso
Spiegar la sua bontà, se ’l volse mai
In altro pio guerriero, e le sue colpe
Nel sangue del figliuol pietoso scolpe.
xxxiv
     E quantunque lassù niente vaglia
Pomposo onor, ma le preghiere umili,
Per mostrar pur quanto di lui mi caglia,
E che i suoi che qui son non tenga vili,
Come il sol co’ suoi raggi al mondo saglia
Vorrei ch’a voi co’ nobili e gentili
Vostri duci maggiori in negro manto
Piacesse esser presente al nostro pianto:
xxxv
     E dar l’estremo don, che qui si deve
A così altero cor, come il vedeste;
E far poi comandar, che pronto e leve
Tutto anco il nostro esercito s’appreste
D’esser’ al santo officio e non gli greve
Mover le voci pie devote e meste
A Dio per quel guerrier ch’a morte è corso
Sendo a’ perigli suoi fido soccorso.
xxxvi
     A sì giusti desir l’alto Britanno
Risponde: Per fratel, padre e figliuolo,
Che gli fosse cagion d’eterno affanno,
Non pianse alcun già mai con tanto duolo,
Come al pubblico nostro estremo danno
Di quel, che di bontà fu al mondo solo,
Ho fatto il primo giorno e ’l farò sempre,
Mentre sia integra in me l’umana tempre.
xxxvii
     E di fargli ogni onor quasi immortale
Non cesserò già mai per ogni sorte,
Perchè l’amor di noi fu del suo male
Cagion, come diceste, e di sua morte;
Ma quando ciò non fosse, or son’io tale,
Che della cortesia chiugga le porte
A Lancilotto mio, dove conviene
Il dever, la pietà, l’onore e ’l bene?
xxxviii
     Così detto, l’araldo Amaso appella,
E gli ragiona: Voi con gli altri insieme
Gite dell’oste in questa parte e ’n quella
Comandando a ciascun che m’ama o teme,
Tosto che il sol diman caccia ogni stella
Vegna in guisa di quel, cui doglia preme,
Senz’arme al tempio a far con umil core
A Galealto il re dovuto onore.
xxxix
     Dopp’esso il re dell’Orcadi e Tristano
Con la schiera famosa ch’ivi assiede,
Securo il fan, ch’al giorno prossimano
Seco faran nella sacrata sede;
Così fermo in fra tutti a mano a mano
Ogni uom verso l’albergo volge il piede
Col congedo del re, desideroso
D’aver nel sonno omai qualche riposo.
xl
     Ma il famoso Tristan pria che ritrove,
Benchè assai travagliato, il padiglione,
Verso gli ultimi fossi il passo muove,
E l’usate sue guardie intorno pone;
Che ancor che ’ntenda, che l’andate prove
D’esser senza timor gli dian cagione,
E bench’ei sia guerrier d’invitto ardire,
Della guerra al dever non vuol fallire.
xli
     Già rimbrunito il cielo e la campagna
Si ritrova ciascun nel sonno avvolto,
Discarco il cor, come chi assai guadagna,
E ’l sospetto e ’l dolor del seno ha tolto;
Solo il buon Lancilotto ancor si lagna
Di dogliosi pensier l’animo avvolto,
E dispiace a se stesso d’esser vivo,
Poi che d’amico tal si sente privo.
xlii
     Pure stanco alla fin verso l’aurora
Come un leve dormir gli occhi gli ingombra;
Più che mai fosse lieto scorge allora
Di Galealto suo la placid’ombra,
Non men lucente e vaga che l’aurora
Quando al ciel più seren la notte sgombra,
E gli dice: Fratel, perchè piangete
Del divin, ch’era in me, le sorti liete?
xliii
     Io mi trovo or lassù tra le più chiare
Anime, che ’l Fattor seco raccoglia,
Di quei che d’opre sol lodate e rare
Nella vita mortale ornan la voglia,
E ch’alla sua bontà salda fermare
Osar la speme lor, ch’a quella soglia
Di salire il cammin gli mostreria
Per aperta, secura e dritta via.
xliv
     Non vi dolete più della mia pace,
E che d’aspra prigion sia fuore omai,
Se ’l ben di chi v’onora non vi spiace,
O non piangete i miei, ma i vostri guai;
L’amor ch’ho visto in voi, troppo mi piace,
Nè vendicato pur mi tengo assai,
Ma troppo ancor; perchè quassù non spira
Il rabbioso furor di sdegno e d’ira.
xlv
     Le gloriose pompe e gli altri onori,
Che ’n memoria di noi di far bramate,
A schivo non avrò, pur che sien fuori
Degli altrui danni e d’empia crudeltate;
Ma perchè il sol montando, i suoi colori
Rende al mondo quaggiù, lieto restate,
Senza turbar mai più co’ pianti vostri
La pace eterna mia ne gli alti chiostri.