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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/224

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lxxiv
     L’ultimo alfin, chi con più dotta mano
Più dritto e più lontano il dardo avventa;
I pregi saran tai, che non in vano
Sarà il sudore, ond’altri si ripenta,
Sì come allora il figlio del re Bano
A quei, ch’avranno al gir la voglia intenta,
Co ’l suo proprio parlar farà palese
In atto benignissimo e cortese.
lxxv
     Così detto si tacque, e ’n suono altero
Mille tube di nuovo si svegliaro;
Sfoga in lieto gridare il suo pensiero
Il popol lieto e di vedere avaro;
Ogn’altro duce illustre e cavaliero
Va rivolgendo in core, onde più chiaro
Possa ritrarre onore e chi più stime,
Che contenda con lui le palme prime.
lxxvi
     Ma il chiaro Lancilotto in alta sede,
Ove lor più spedite sian le viste,
E scernan dritto, chi del pregio erede
Sia veramente e per qual via l’acquiste,
Il gran re Lago e ’l buon Lambego assiede;
Ben che quel dì tal grado si contriste,
Dicendo: Io che già fui più d’altro buono,
Or dall’opre d’altrui giudice sono.
lxxvii
     Con lor Sicambro poi, che d’anni grave
Ha l’usato valor volto in consiglio,
E ’l re Rion, ch’amò Benicco e Gave,
E Lancilotto poi qul proprio figlio;
Il quinto era Mandrin, che seguito ave
Per segno in quella guerra il franco giglio,
Il qual per lunga etade e per la prova
D’ogni lite dubbiosa il ver ritrova.
lxxviii
     E perchè Lancilotto non volea
Sendo il dator de’ pregi essere in prova,
Al grande Arturo e gli altri umil dicea:
Spogliate i cor di maraviglia nuova,
S’a me, chiari signor, che pur solea
Volentier faticare, or l’ozio giova;
Chè di quel, ch’amai più, l’acerba morte
Ha chiuse a’ miei piacer l’antiche porte.
lxxix
     Pregovi dunque in quella riverenza,
Che ’l mio stato bassissimo richiede,
Non sdegniate mostrar vostra eccellenza
In quella arte miglior, che Dio vi diede,
Non per me sol, ma per colui che senza
S’e’ m’ha fatto di miseria erede,
E che tanto amò voi, che queste arene
D’altrui sangue e di suo lassate ha piene.
lxxx
     Or chi s’estima aver destrier più leve,
E che quante ne siano al corso passe,
Di spronarlo egli stesso non gli aggreve
Al presente paraggio, che farasse;
E ’l primo vincitor la fronte greve
Avrà d’aurea corona, in cui vedrasse
Di beltade e di prezzo gemme assai,
Onde il gran re Sassonio dispogliai.
lxxxi
     Nè senza premio ancor sarà il secondo,
Che del forte corsier di Palamede,
Nato in tra’ monti Betici, ch’al mondo
Pochi ha par di bontade, il faccio erede;
Nè il terzo ancor con l’animo ingiocondo
Si lasserà partir di questa sede,
Ch’avrà la sopravesta d’oro fino
Del figliol di Clodasso Massimino.
lxxxii
     Avrà il quarto la sella e ’l ricco arnese
Del caval di Vittorio il suo germano,
Ove il mastro famoso tutta intese
In farlo unico allor l’arte e la mano;
Del quinto fia la coppa, in cui l’Inglese,
Ch’uccisi in Catanesia, il re Velano,
Bevea ne’ festi dì, ch’ha l’auro intorno
Di mille varie gemme aspro ed adorno.
lxxxiii
     Al dir di Lancilotto in un momento
Surge il giovin re Franco, il pio Clotaro,
A cui il vecchio Sicambro fu contento
Di donare il destrier pregiato e raro,
Leve non men che sovra l’onde il vento,
Che dall’Orse ci vi nel verno chiaro,
Nato all’orrida Tracia e fu credenza,
Che dell’antico Borea era semenza.
lxxxiv
     Fu il secondo Gaven, che seco estima,
Ch’anco il suo buon corsier non aggia pare;
Ch’al britanno terren la palma prima
D’ogni altera tenzon solea portare;
Il terzo è Perseval, che tien la cima
Di saver regger bene e ben guidare
A tempo e con ragione ogni destriero,
E ’l più grave e ’l più vil fa snello e fero.
lxxxv
     E se ben non ha quel ch’egli amò tanto,
Che dal gran Seguran ne fu privato,
Spera con l’arte sua d’avere il vanto
Sovra ogni altro caval poco onorato;
Vien Nestor poi, che men si pregia alquanto;
Non però sì che non gli vada a lato;
Ch’ove dell’arte altrui temenza il preme,
La bontà del caval gli aggiunge speme.
lxxxvi
     Il quinto a presentarse è il forte Eretto,
Che di certa fidanza ha cinto il core;
Che ’l giovinile ardor gli scalda il petta,
Il natural’ ardire e ’l gran valore;
Ha il paterno destrier che fu perfetto
Mentre che ’n lui fiorì l’alto vigore,
Or di tre lustri carco era pur tale,
Ch’al breve faticar più d’altro vale.
lxxxvii
     Quando vede il re Lago che ’l figliuolo
Alla lodata prova s’accingea,
In parte il chiama ov’egli ascolti solo,
E in amorose note gli dicea:
Perchè chi affisse l’uno e l’altro polo
M’empie di nobil’arte, ond’io solea
Nel corso de’ destrieri in simil forma
D’ogni altro cavalier trapassar l’orma;