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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/226

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cii
     Così quanto può più spinge il destriero,
Nè men facea Gaven dall’altra parte,
Quando han trovato che stringea ’l sentiero,
Un’alto sasso che i confin diparte
Tra due vicin, per discoprire il vero
A i possessor che vivono in disparte,
Dall’altra era il gran vallo, ond’era poco
Al caper tutti due l’angusto loco.
ciii
     Quando il vede Gaven, con aspro ciglio
Grida: Il vostro corsier fermate alquanto,
Nè vogliate oggi porne a tal periglio,
Ch’a chi ne porta amor ne vegna pianto.
Allor più sprona del re Lago il figlio,
E di lui non udir si finge in tanto,
E quel seguita ancor: Voi folle sete
Nè di voi nè d’altrui cura tenete.
civ
     Non si convien sì poco reverire
Chi di regno e d’età vi sia maggiore.
Ma il giovine sprezzando ogni suo dire
Al corrente destrier cresce il furore;
Onde Gaven temendo ivi perire,
Prepon la vita al guadagnato onore,
E ’l lassa avanti gir, nè il potè poi
Racquistar più con gli argomenti suoi.
cv
     Ma in questo contrastar già Persevalle,
Che lor dietro era ancora, innanzi è gito,
E già del mezzo per più accorto calle
Il corso primo a tutti avea compito,
Ma nel voltar su l’arenosa valle
Venne al girar la meta il piè fallito
Al suo destriero e l’uno e l’altro in essa
Ebbe la manca spalla insieme oppressa.
cvi
     Surge tosto il meschin, benchè si senta
Della percossa asprissima impedito;
Ma il suo caval, che a muover s’argomenta,
Vie più che non è lui trova impedito;
E doppo lungo aver la forza intenta,
A pena il può drizzar sopra quel lito;
Onde accusando il ciel doglioso e lasso
Il tira per lo freno a lento passo.
cvii
     Or già di Clodoveo l’altero figlio
Primo a quanti altri sono al segno arriva,
E ’l popol tutto lieto l’aureo giglio
Va innalzando alle stelle in voce viva;
E Lancilotto a lui con lieto ciglio
Dice: Chiaro signor, non vegna schiva
Questa corona omai di questa chioma,
Che d’altre assai maggiori attende soma.
cviii
     Così di propria man d’essa gli cinge
La nobil fronte e ’l giovinetto adorno
D’onorato rossore il viso pinge,
E ’n fra’ suoi tutto lieto fa ritorno;
Nè il buon vecchio Sicambro anco s’infinge
D’appellar felicissimo quel giorno,
In cui quel ch’ei nodrisce e ’l suo destriero
Di così chiaro pregio ir vede altero.
cix
     Vien doppo il franco re l’Orcado Eretto,
Che si trova Gaven che sprona a lato,
E correa sì vicin, ch’avea col petto
Quasi l’arcion di dietro trapassato,
E se ’l spazio del corso ivi perfetto
Si fosse, pochi passi prolungato
Era forse il secondo, ma in quell’ora
Con grave ira e dolor terzo dimora.
cx
     Fu il quarto all’arrivar Nestor di Gave,
Che ’l tirar d’un buon arco indietro viene,
Per ch’aveva caval possente e grave,
Cui più del corso il guerreggiar conviene;
E ’l suo signor, ch’altissimo cor’ ave,
Di così basso onor cura non tiene,
Ma per far cosa grata a Lancilotto
Fu con poca speranza a ciò condotto.
cxi
     L’ultimo è Perseval che frale e stanco,
Biasmando il suo destin contrario troppo,
Conduce il me’ che può traendo il fianco,
Per la briglia il destrier debile e zoppo,
Come bifolco il bue, che venne manco
Arando al mezzo dì, che ’l fero intoppo
D’aguto legno entro alla siepe ascoso
Al rivolger l’aratro ebbe noioso.
cxii
     Del quale a Lancilotto che lontano
Già il vedeva apparir, prende pietade,
E dice sorridendo: Or chi sovrano
Vive in quest’arte della nostra etade,
Se la sorte ebbe avversa, fia che ’n vano
Senza premio calcar debba le strade?
E ’n tal dire il destrier di Palamede
Prende e far ne lo vuol famoso erede.
cxiii
     Ma l’infiammato Eretto che ciò mira,
Tosto al figlio di Ban di mano il toglie;
E con note tremanti e colme d’ira,
E ch’a gran pena dalle labbra scioglie,
Gli dice: Alto signore al torto aspira
Chi cortese si fa dell’altrui spoglie;
Non più vostro è il caval, ma fatto è mio,
Poi ch’io fussi il secondo piacque a Dio.
cxiv
     E se di sua virtù vi astringe amore,
Non vi mancan corsieri, oro ed argento
Da dargli anco del mio pregio maggiore,
Ond’ei resti più lieto ed io contento.
Rise del giovinil semplice ardore
Il nobil Lancilotto a gloria intento,
Et abbracciandol dice: Io veggio scorto,
Caro più che figliuol, ch’oprava il torto.
cxv
     Riprendete il caval vostro a ragione,
Et io d’altro miglior sarò cortese.
Poi Tarquir manda tosto al padiglione,
Che quel di Seguran, ch’era ivi, prese,
Il qual tutto dorato avea l’arcione,
E di prezzo infinito il ricco arnese,
E ’l presenta dicendo: A Persevalle
Questo fia più securo in ogni calle.