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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/51

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xxv
     Ma il feroce Brunoro, che non vede
D’ottener la vittoria alcuna via,
Mentre il suo Dinadano a quei provvede,
Con pochi de i miglior queto s’invia
In quella parte ch’alla destra siede,
Ove la minor gente e la più ria
Stava di quei d’Arturo, chè l’eletta
All’insegna d’Eretto era ristretta.
xxvi
     Creuso il Senescial soletto trova
Che presago di ciò d’intorno chiama:
Il passo in ver di me correndo muova
Chi la vita salvar cerca e la fama,
Chè la schiera ch’or viene altera e nuova
Il nostro sangue e la nostr’onta brama,
E se non provveggiam con sommo ardire
Porria forse adempir lo suo desire.
xxvii
     Così diceva; e poi ch’insieme ha posto
Lo stuol che di Cornubia avea menato,
Per dar baldanza a’ suoi, quanto può tosto,
D’assalir cerca il gran nemico armato:
Il quale è nel suo cor fermo e disposto
Che ’l passar indi non gli sia vietato,
E con impeto tal fra lor percuote
Che la valle al romor la fronte scuote.
xxviii
     Ma non cede per questo il buon Creuso,
Che lo scudo tien saldo e ’l ferro spinge,
Che in altra parte e in altri tempi era uso
Ove il terren di sangue si dipinge;
Ma poi che ’l suo sperar torna deluso
Brunoro irato contro a lui s’accinge,
E con la spada nello scudo il fere,
Che non potè più intero rimanere:
xxix
     Che, quantunque sì fin fosse l’acciaro
Che pochi altri n’avea simili ad esso,
Tutte l’ottime tempre no ’l salvaro,
Che ’l sinistro suo lato ha in terra messo.
Creuso gli rendeo colpo più amaro,
Che di vibrante punta il colse presso
Della gola in quel loco che sostiene
L’osso che dalla spalla al petto viene,
xxx
     E passò alquanto dentro, ma il periglio
Fu del danno in quel punto assai maggiore,
Chè, se ben ne tornò ’l ferro vermiglio,
Non gli tolse però spirto o vigore.
Ma in questo mezzo rivolgendo il ciglio
Creuso ove sentia più gran romore
Nabon vede, Agrogero e Gracedono,
Che quasi tre leon fra’ cervi sono.
xxxi
     Degli oscuri guerrieri uccisi han tanti
Che la terra di lor parea coperta:
D’altri poi duci e cavalieri erranti
O scudieri o cugin di fama aperta,
Morto è Lamete, che in destrezza quanti
Ebbe mai la Cornubia al corso esperta
Vincea già tutti, e vincerebbe ancora,
Se dallo stadio suo non uscia fuora;
xxxii
     Ma di pregio maggior desire il prese,
Chè di Creuso allor l’orme seguìo,
Fin che, in van sospirando il suo paese,
Per le man di Nabon miser morìo.
In Cinero e in Asseo non men si stese
Per quel ferro medesmo il destin rio,
Che gli fè d’un sol parto uscire insieme
E d’una istessa morte ivi gli preme.
xxxiii
     Uccise Gracedono il bel Dolopo,
Che della vaga Alarta era figliuolo,
Di Creuso sorella, ch’assai dopo
Il partir venne del Britanno stuolo;
Nè le ricchezze nè la forma ad uopo,
Nè l’esser di tal madre uscito solo,
Lasso, gli furo allor, chè l’empia spada
Se gli fece nel cor mortale strada.
xxxiv
     Di quella stessa man cadde Lampeto,
Nato in Asforda al promontorio Uvallo,
Che fu nudrito in luogo ermo e segreto
Da chi temea la pena del suo fallo:
Perchè Fileda del famoso Cleto,
Che del suo padre Ivano era vassallo,
Il partorì nel bosco, e ’n guardia diede
D’un pastor vecchio alla sincera fede;
xxxv
     Poi, palesato in ver, doppo il perdono
Fu dell’amante suo la donna sposa:
Ma quanto era per lui più largo dono
D’incognito abitar la selva ombrosa?
Ch’or non saria dal fero Gracedono
In troppo acerba età, qual fresca rosa
Ch’ancor non apra il sen, disteso al piano
Dalla marmorea testa sì lontano.
xxxvi
     Ma Terrigano il grande Orone uccise,
Lo scudier valoroso di Mandrino,
Che al più basso del ventre il ferro mise
E tremando il gettò col capo chino;
La fronte in fino al ciglio poi divise
A Calenor, che fu di Brestolino,
Dell’isola vicina a Bangarìa,
Ove l’arte piratica il nutrìa;
xxxvii
     Ed Agrogero il crudo presso a loro
Non men bagna il terren di nuovo sangue,
Ch’avea reciso al misero Banoro
Tutto il destro ginocchio, e fatto esangue:
Questi del re Gaven l’ampio tesoro
In guardia aveva, ed or povero langue,
Senza sepolcro sopra o pompa intorno,
Lontan di Conturbìa, suo nido adorno.
xxxviii
     Uccise appresso Clizio e Palidarco,
D’Essesia questo e di Mildesia quello:
Percosse l’un dove congiungon l’arco
Le ciglia insieme, e trapassò il cervello;
Dell’altro al manco lato orribil varco
Fece dove più il cor si addrizza in ello.
Or quando tai cader la gente vede
Tutta allo scampo suo rivolge il piede.