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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/63

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lxxxi
     E con Brunoro poi dolce ragiona:
Vi ringrazio, signor, de i gran ricordi,
Che scendendo di mente amica e buona
Non troverranno in me gli orecchi sordi:
Che quei ch’ad un sol fia virtude sprona
Deven gli animi sempre aver concordi,
E soffrir pianamente le rampogne
Di chi ’l suo ben, com’ei medesmo s’agogne.
lxxxii
     Or, per darvi ragione del mio consiglio,
Dico che stato son sempre in disparte
Con disegno di gir dove il periglio
Si scorgesse maggior che in altra parte,
Col piè pronto e la mano a far vermiglio
Ove più mi chiamasser Palla e Marte;
Chè l’ultimo soccorso è quel che spesso
L’incauto vincitore ha in fuga messo.
lxxxiii
     Io scorgea da man destra Palamede
Da Tristan risospinto alcuna volta,
Che lassar convenia la prima sede
E ’nsieme rannodar la schiera sciolta,
Che mi fea dubbio star: ma chi non vede
Se non la parte sua che ’n guardia ha tolta,
Non può ben giudicar come colui
Che scerne il suo bisogno e quel d’altrui.
lxxxiv
     Or non vi spiaccia dunque avermi udito
E pensar poi di me qual sempre feste;
E con questo drappel forte e spedito
Con Clodin gite ove le genti ha preste.
Io vengo appresso, e nel medesmo lito
Ove le schiere avverse avem moleste
Sarò ben tosto, e spero allor che ’n voi
Fia maggior lo sperar ch’or qui di noi.
lxxxv
     Con più queto parlar Brunoro allora
Risponde: E chi fia mai che ’n tal fortuna
Non sia vinto dall’ira, ond’esca fuora
De’ suoi primi pensier che in core aduna?
Tutto il mondo sa ben se innanzi ch’ora
Io conosco il valor dell’arme Bruna,
E se già mille volte al paragone
Ho posto Seguran col suo Girone.
lxxxvi
     Così risposto, col real Clodino
Tra molti cavalier ratto s’invia,
Ove Boorte al fiume assai vicino
Empiea di sangue l’arenosa via:
E ch’ha incontrato il misero Erogino,
Che ’n sul vago corsiero ivi apparia
Col ricco scudo e l’arme tutte aurate
Che dalla donna sua gli furon date;
lxxxvii
     Ch’una figlia sposò di Morassalto,
Re della Cartagenia e d’Alicante,
Androfila appellata, di core alto
E di pensier magnanimo e costante:
E che ’l marito di porfireo smalto
Tenea fisso nell’alma o d’adamante;
La qual, giunto al partir l’ultimo sole,
Glie le donò piangendo, in tai parole:
lxxxviii
     S’io potessi piegar gli uomini, e i dei,
E ’l destin delle donne troppo avaro,
Beatissima al mondo mi terrei
Sopra ogni lume in ciel più altero e chiaro,
Nè di grazia maggior gli pregherei
Che di voi seguitar, signor mio caro,
Sì come ho sempre in pace, ancora in guerra,
E non vi abbandonar viva e sotterra.
lxxxix
     E se ciò m’avvenisse, uopo non fora
Di procacciar per voi più sicur’arme:
Ch’io ’l vostro scudo e la lorica allora
Contr’ogni offesa altrui penserei farme,
Sperando o che Giunone, o s’altra onora
Casto amor marital, devesse aitarme
E con voi mantener, per sommo essempio
Di chi più aggrade al suo famoso tempio.
xc
     Ma poi ch’esser non può, vi piaccia almeno
Di queste arme portar ch’hanno il mio nome,
E da i perigli riguardar non meno
Che si soglian le dolci amate some;
E qualor crollerete all’aure in seno
Sopra il cimier queste dorate chiome
Che riconverser già, lasse, la testa
Ch’or di loro e di voi vedova resta;
xci
     Vi risovvegna, oimè, con quanta doglia,
Lunge han da lor la misera nutrice,
Temendo sol di non sentirle spoglia
Della nemica schiera vincitrice.
Ma segua pur di lor quanto ’l ciel voglia,
Pur che torniate voi lieto e felice
Da potermi narrare a parte a parte
I gran pregi e gli onor del nostro Marte.
xcii
     Così dicea la pallida consorte,
Di doloroso umor bagnando il volto.
Ma il vago giovinetto in dura sorte
Dal prezïoso don fu intorno avvolto,
Poi ch’or contro alla spada di Boorte
E dal fero destin soletto accolto,
E gli fa in ver di lui muovere assalto
Per pietà di Druscheno e di Verralto;
xciii
     E con tutto il poter sovr’esso sprona
Con la lancia ch’avea pesante e dura,
E ’n mezzo al doppio scudo il ferro dona
Sì che i suoi più vicin n’ebber paura.
Ma il franco cavalier con la persona
Non si vede crollare, e tanto il cura
Quanto il robusto pin di Borea il fiato,
Che già il decimo lustro avea contato.
xciv
     Poi ch’ha l’asta troncata, il lassò in prima
Senza impedirlo pur prender la spada;
Indi il fere altamente su la cima,
Ov’è ’l dono amoroso che gli aggrada:
E la chioma di lei, che troppo stima,
Intricata convien ch’a terra vada,
Ma la fronte non fu dal colpo offesa,
Che dall’ottima tempra era difesa.