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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/80

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lxxxix
     Or, dolcissima sposa, a me più cara
Che le medesme luci e questa vita
O s’altra cosa mai più amica e rara
Mi può in sorte venire, o più gradita,
Spogliate il cor di questa doglia amara
Ch’a temer troppo e lagrimar v’invita,
E ’l rivestite omai di quella spene
Ch’allo spirto real di voi conviene:
xc
     Chè chi nata è di sangue così altero
Il pensier femminil da sè divida
Di quanto possa mai sotto al suo impero
Recar fortuna instabile ed infida,
Sì che l’animo resti invitto e ’ntero,
Difeso dal valor che ’n lui s’annida;
E morte o servitù che da lei vegna
Non oscure il candor che in esso regna.
xci
     E chi tutto al pensier si pone avanti
Ciò che puote avvenir nell’alte imprese,
Di sè il morir, de’ suoi più cari i pianti
E de’ nemici poi le crude offese,
Degno non è tra’ cavalieri erranti
Vestir di Marte l’onorato arnese,
Ma di riposo inerme e d’ozio vago
Tra le femmine usar la rocca e l’ago.
xcii
     Conviensi all’alto cor, da poi che scorga
Che non senza ragion segue una strada,
Per quantunque ella scenda o in alto sorga
Col cominciato passo innanzi vada;
Solo alfin destinato gli occhi porga,
Chè mal si può avanzar chi altrove bada:
Sia lontan d’ogni tema, e ’l meglio attenda;
Poi quanto ha ’l ciel disposto in grado prenda.
xciii
     Ben vi giur’io, carissima consorte,
Per le fiamme d’amor ch’io porto in core,
Che men grave mi fia l’istessa morte
Che il lassarvi lontana in tal dolore;
E che per non recarvi a peggior sorte,
Pur ch’io non squarci il marzïale onore,
Guarderò dalle insidie questa vita
Ch’io prezzo sol perch’è da voi gradita.
xciv
     Ma di qui rimenar le genti indietro
Impossibil saria, senz’onta avere:
Chè più frali assai son che ghiaccio o vetro
Per chi cerchi cangiar le assise schiere,
Che ingombrate talor da incerto e tetro
Timor, non le può a fren poi ritenere
Duce nè cavaliero, e meno ancora
Se ’l passo ritirar convegna allora.
xcv
     Ma bastivi che ’l loco ove noi semo
Non men che ’ntorno a qui ne dia vantaggio:
E se ’l ciel non ne sia nemico estremo,
Dello avversario uman tema non aggio.
Vivete lieta pur, che poi ch’avremo
Vendicato di noi l’antico oltraggio,
Fia dolce il rimembrar del tempo rio;
E se ’l contrario avvien, sia posto in Dio.
xcvi
     Rivolto appresso alla famosa Albina,
L’alma suocera sua, così dicea:
Ovunque intenda la virtù divina
Di condurmi a fortuna o dolce o rea,
Madre onorata, con la mente inchina
Vi prego umìl che la mia sposa e dea
Che di voi nacque, in tanta cura aggiate
Che non sia cruda in sè la sua pietate.
xcvii
     Qui si tace e l’abbraccia, e l’asta presa,
Che ’n terra al suo venire avea confitta,
Rivolge il passo alla lassata impresa
Ove ancor l’attendea la schiera invitta.
Della vecchia infelice, che compresa
Dal primiero languir rimane afflitta,
Al soverchio ch’avea, s’aggiugne il duolo
Quando vede il partir del suo figliuolo,
xcviii
     Il partir di Clodin, che già seguia
Del caro Seguran gli alteri passi:
Il qual rappella sconsolata e pia,
Dicendo: Or fate almen che gli occhi lassi
Possan di voi saziarsi alquanto, pria
Che ritorniate ove crudele stassi,
Di voi, di tutti noi bramando morte,
Il fero inessorabile Boorte.
xcix
     Nè poss’io ben saper, che ’n Dio sol giace,
Lassa, s’io debba mai rivederv’anco,
O s’ancor aggia meco tregua o pace
Il ciel, ch’a i danni miei non veggio stanco:
Che ’n dodici figliuoi breve e fallace
Piacer mi diè, poi che venuta è manco
Già la parte maggior di tutti, ed io
In vita resto ancor per danno mio.
c
     Fu nel passare il mar da Lancilotto,
Che in tormento di me nel mondo è nato,
In un punto medesmo a fin condotto
Ercole il forte e ’l caro mio Dentato.
Poscia, allor che Grifon fugato e rotto
Fu presso all’Era al suo sinistro lato,
Lassò il verde terren di rosso tinto
Per l’istessa sua man Decimo e Quinto;
ci
     Ch’or volge il Sesto sole allor ch’avea
Di nuovo aurato pel fiorito il volto
L’uno e l’altro di lor, sì che parea
Nel più cortese april germe ben colto.
L’altr’anno appresso per fortuna rea
Il mio dolce Settimio mi fu tolto
Dall’arme di Baven crudele e fera
Sopra il lito fatal dell’empia Cera.
cii
     Nonio non molto poi da Lïonello,
Del maladetto seme anch’ei di Gave,
Pur qui vicino al suo paterno ostello
Restò impiagato da percossa grave
Nell’osso della fronte ch’al cervello
Fa di sopra e di fuor coperchio e chiave:
E senza il gran valor di Palamede
Gli dimorava in man tra l’altre prede.