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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/79

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lxxv
     Ma se m’amaste mai, come sovente
Ch’io mel credessi pur desio mostraste,
E s’è di merto alcun l’amore ardente
Che ’nfiammi di Giunon le voglie caste:
Allor che ’n mezzo alla nemica gente
In tra spade pungenti e rigide aste
Spronerete il corsier, vi risovvegna
Del mio pregare umìl, s’io ne son degna;
lxxvi
     E dite in voi medesmo: - Claudïana
Che ’n sì angosciose pene oggi lasciai,
Se per temenza immaginata e vana
Se le oscurar così del sole i rai,
Che faria, miserella, se lontana
D’ogni conforto e tra infiniti guai
Si trovasse al più rio del corso umano
Senza la scorta aver di Segurano,
lxxvii
     Che non è sposo sol, ma padre e frate
E mille dolci nomi aggiunti insieme?
L’orme omai calca all’ultime giornate
L’onorato Clodasso, e morte il preme:
De’ suoi tanti german di salda etate
Solamente in Clodin chiude ogni speme;
Giovine incauto, e ben che d’alto core
Non forte a sostener sì gran furore.
lxxviii
     E chi sarà il suo scampo, poi che ’n seno
Fia de’ Franchi e Britanni il nudo Avarco,
Che non la prenda allor l’empio Gaveno,
Da lei per mia cagion d’ingiurie carco,
E sfoghi tutto in lei l’aspro veleno
Del qual mentre vivrà non fia mai scarco,
E tra le serve sue mattino e sera
Oprando l’ago e ’l fil la tenga a schiera? -
lxxix
     E ’l misero figliuol, ch’al terzo mese
Port’io, del nostro amor gradito pegno,
Cerchi a nascer lontan l’altrui paese
Per restar servo fra i nemici indegno,
E dell’alte rovine in noi discese
E delle lor vittorie eterno segno?
E dir possa il più vil con fero ciglio:
- Quei son di Seguran la sposa e ’l figlio? -
lxxx
     Non sempre troverrà cortese affetto
Come già in Lancilotto in altri tempi,
Che al padre la rendeo, contro al disdetto
Di quei che la voleano avari ed empi:
Ma trovandola ancor, se ’l patrio tetto,
Se le pubbliche mura e i sacri tempi
Saran destrutti, e tutti ancisi i sui,
Ove la tornerebbe, e ’n man di cui?
lxxxi
     Deh, consorte onorato, aprite alquanto
Alla preghiera umìl l’orecchie e ’l core,
E tempre in voi l’umor del nostro pianto
Qualche favilla al marzïale ardore:
Nè vogliate spregiar del sacro e santo
Vate le voci pie scarche d’errore;
Perchè veduto avem per prove antiche
Che le stelle al predir sempr’ebbe amiche.
lxxxii
     Riducete qui presso i guerrier vostri,
Ch’a quest’alma città guardin le mura
Ove d’Euro e d’Oron gli ondosi chiostri
Men la parte di lor rendon sicura,
Infin che ’l ciel con miglior segni mostri
Della vostra virtù tener più cura:
Chè non sempre ha lassù le voglie eguali,
Ch’or minaccioso or pio volge a i mortali.
lxxxiii
     E ’n questo tempo tutte a i santi altari
Sacrifici porgendo, doni e preghi,
Con meste voci e con sospiri amari
Supplicherem che ’n voi la vista pieghi
E le notti felici e i giorni chiari
Per le nostre vittorie amico spieghi;
E doni a voi ghirlanda in questa riva
Di trïonfante lauro, a noi d’uliva.
lxxxiv
     E se avrem le battaglie a noi vicine
Potrò il vostro valor vedere almeno,
E contar meco l’anime meschine
Che del fero Pluton porrete in seno:
Pregando allor che le virtù divine
Al vostro troppo ardir reggano il freno,
Nè l’ostinato cor vi porte in loco
Ch’ogni sforzo al tornar poi fusse poco;
lxxxv
     E non sempre udirò fra doglia e tema
Di messaggier fallace le parole
Che ’l ver come gli aggrada accresce e scema
E sempre oltra il dever s’allegra e duole:
E ’l mio misero cor ch’or arde or trema
Più sovente il peggior creder ne vuole.
In questo loco almen gli occhi vedranno
Il lor proprio contento e ’l proprio danno.
lxxxvi
     Poi tutti i nostri duci e cavalieri,
Che si vedran de’ suoi le luci sopra,
Si mostreranno in arme assai più feri
Ch’ove l’altrui viltà s’asconda e copra:
Però che in uom che bassi aggia i pensieri
La vergogna e ’l punir più d’altro adopra,
E tal qui con Tristan si farà ardito
Che là del suo scudier saria fuggito.
lxxxvii
     Qui si tacque piangendo, e Segurano,
Nel cui feroce cor dolce pietade
Pur desto avea l’umil sembiante umano
E le lagrime pie di tal beltade,
Risponde: Il contrastare in tutto è vano
Ai voler di lassù, nè truova strade
Secure il piè mortal che ’l meni dove
Non si stenda il poter del sommo Giove;
lxxxviii
     Sì che ’ndarno oprerem, se fia pur vero
Quanto n’ha ragionato Clitomede.
Ma non vola tant’alto uman pensiero,
Nè la vista dell’uom sì adentro vede:
Però ch’aggia mentito affermo, e spero
Di lui veder di tutto il danno erede
Che per voi lusingare a me predice,
E me più ch’ancor mai con voi felice.