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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/78

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lxi
     Sia del terrestre quanto al fato aggrada,
Che gli può poco tòr, send’ei mortale:
Pur che lo spirto mio per dritta strada
Addrizze sempre al ciel candide l’ale,
Nè si possa mai dir che questa spada,
A cui di sommo onor, non d’altro cale,
Se ben fusse conversa in ghiaccio e ’n vetro,
Per temenza d’altrui tornasse indietro.
lxii
     Di fare al quinto ciel solenne voto
D’ogni spoglia donar la miglior parte,
Consent’io col pensier piano e devoto,
Nè fien le mie promesse al vento sparte:
Chè d’orgoglio è ripien, di senno vòto
L’armato cavalier che sprezzi Marte,
E che d’esse adempir contento fui
Voi quinci testimon ne appello e lui.
lxiii
     D’esser io poscia a singular battaglia
Con quel duce miglior che segua Arturo,
Se ’l provocargli e l’invitar mi vaglia,
D’obbedir Clitomede andrò sicuro:
Benchè pochi vi sien di cui mi caglia,
Se i medesmi son qui ch’altrove furo;
Se non forse Tristan, che pure è certo
Ardito cavalier, prode ed esperto.
lxiv
     Or questa sia la fin del parlar nostro,
Riponendo nel ciel ciò ch’esser deve,
Ch’io men vada volando al campo vostro
A cui di ritornar promisi in breve.
Vivete lieto or voi, nè augurio o mostro
O falso antiveder di spirto leve
Vi faccia non sperar vita e vittoria,
Lunga pace tranquilla e somma gloria.
lxv
     Il buon vecchio real, ch’intento ascolta
Del gran genero suo l’alte parole,
Ha di doppio timor l’anima avvolta
E del suo troppo ardir seco si duole:
Non risponde altro a lui, ma gli occhi volta
Piangendo al cielo e dice: O vivo sole,
Se l’umana virtù ti fu mai cara
Difendi questa in lui più d’altra chiara;
lxvi
     E le mostra il cammin dritto e verace
Che la conduca al fin de’ bei desiri:
Opra col tuo poter che nulla face
Di sguardo micidial lassù la miri,
E ’l disegnar quaggiù torni fallace
Di chi più a i danni suoi spietato aspiri;
E tal dell’ali sue sostieni il volo
Ch’al sacrato arbor tuo pervegna solo.
lxvii
     Poi ch’ebbe così detto, a lui si volse,
E con tal ragionar lieto l’abbraccia:
Chi crederrà che l’uomo in cui raccolse
Tanta bontade il ciel già mai gli spiaccia?
E cui di tanto onor la vita avvolse
Consenta in morte che negletto giaccia,
Che ’l passato valor pietà non muova?
E di così sperar mi piace e giova.
lxviii
     Gite or con buono agurio, e vi sovvegna
Che non sempre è lodato il troppo ardire:
Ma solamente in loco ove convegna
Gli aspri nemici abbattere o morire.
Poi sopr’ogni altro chi comanda e regna
Non si lasse portar dal van desire
D’acquistar poca gloria in gran periglio,
Ma via più che la mano use il consiglio.
lxix
     Qui alfin si tacque, e dal suo sen disciolto
Il gran genero poi da sè diparte;
Indi a Clodin con lagrimoso volto
Dice: Figliuol, però che il senno e l’arte,
Che distinguon l’uom saggio dallo stolto
E ch’han del bene oprar la miglior parte,
Son dell’uso e del tempo il parto chiaro,
Truovano in giovin cor l’albergo raro.
lxx
     Vi ricordo e vi prego per questi anni
Così debili omai, canuti e bianchi
Che ’n dolor lunghi e ’n travagliosi affanni
Son di piangere i suoi pur troppo stanchi,
Che dall’odio mortal de’ re Britanni
E dall’aspro furor de’ guerrier Franchi
Con accorto riguardo e con misura,
Quanto importa l’onor v’aggiate cura;
lxxi
     E di quei cavalier seguiate l’orme
I quai sien più di voi nell’arme esperti:
Nè l’ardor giovinil l’animo informe
D’impossibili a lui ricercar merti,
Nè vi muovan di quei le vulgar torme
Che del vero valor vivono incerti,
E non san che l’ardir di senno scarco
Di vergogna e di morte è il proprio varco.
lxxii
     Già cerca Seguran dall’alma sposa
In breve ragionar congedo avere,
Quando lei sente afflitta e lagrimosa
Tra le sue braccia misera cadere,
E ’n sembiante apparir qual bianca rosa,
Poi che ’l raggio del sol la scalda e fere,
Che ’l leggiadro splendore ond’era adorna
In pallido color languendo torna.
lxxiii
     Doppo alquanto vagar, poi ch’al suo loco
Il travïato spirto era tornato,
Le due languide luci alzate un poco
Nel volto affisa del cosorte amato:
Poscia in greve sospir ripien di foco
Dicea tutta tremante: In quale stato
Sol mi rechi il timor de i danni nostri
Ben potete or veder con gli occhi vostri.
lxxiv
     Però prego piangendo, o signor mio,
Di mirar col pensier qual esso fora
Se mi ferisse il cor qualch’aspro e rio
Caso di voi, come n’avvien talora.
Ma pria quel gran Motor, quel sommo Dio
Che per pedre comun ciascuno adora,
Del suo terrestre vel quest’alma spoglie
Che rivestirla, oimè, di simil doglie.